Alberto Mancini, le proporzioni della bellezza

Giovane, talentuoso, sulla cresta dell'onda, modi cordiali e una grande passione per il mare. Chi è Alberto Mancini che da Trieste progetta modelli di barche pensando alle automobili
Mancini, classe 1978, una maison di design nel centro di Trieste, dove lavora con un team di una decina di giovani architetti, designer e ingegneri, ha al suo attivo collaborazioni con marchi come Baglietto, Dominator, Magnum Marine, Otam, Overmarine Mangusta, l'ultima con Fairline e studi prestigiosi come Officina Italiana Design, Ken Freivockh, Carlo Nuvolari e Dan Lenard.
Nel mondo nautico è apprezzato per il suo tratto esclusivo da purista che trasferisce nei disegni, rigorosamente fatti a mano o al massimo con matite “tecnologiche” sull’inseparabile tablet e caratterizzato da linee ispirate al mondo aeronautico e automobilistico. Lo abbiamo incontrato in un momento molto stimolante della sua carriera: portare la bellezza e l’eleganza italiana a bordo degli yacht inglesi Fairline.

Domanda d’obbligo: come nasce la sua passione per le barche?
«Sono nato a Trieste, con la mia famiglia passavo le vacanze a bordo del ketch di mio padre, la figura che mi ha trasmesso la passione per il mare. Da bambino più che dalla navigazione o dalla tecnica ero attratto dalle forme e dalle linee degli scafi, mi piaceva guardare queste sculture galleggianti. Da grande ho scelto di studiare Car Design a Torino, lontano dall’acqua. Può sembrare strano, ma non lo è. Nella mia attuale attività di yacht designer, infatti, l’automotive è un mondo da cui attingo continuamente ispirazione e i risultati non sarebbero gli stessi se non avessi seguito un percorso didattico del genere».

Un giovane talentuoso

Lei è molto giovane e ha già un curriculum che pesa. Ci sono passaggi in prestigiose architecture firm da Officina Italiana Design a Nuvolari & Lenard a Ken Freivokhdesign. Ci racconta l’importanza di queste esperienze?
«Collaborare con studi di alto livello è essenziale per chi debutta in questo settore. Nel 2000, a 22 anni, sono entrato in Officina Italiana Design, lo studio legato al marchio Riva; Mauro Micheli e Sergio Beretta cercavano un giovane architetto che “desse una mano”. Ero emozionato: tra quelle mura si progettava tutta la produzione Riva: linee esterne, design degli interni. Un percorso che per me, “ragazzo di bottega” ha rappresentato un periodo di formazione completa durante il quale ho cominciato a capire le proporzioni della bellezza. Inoltre, erano gli anni del boom, la nautica cresceva a due cifre, c’era un’ondata di energia contagiosa. Ma non bastava, ero affamato di voglia di crescere e sapevo che l’iter non sarebbe stato completo senza “un passaggio” in Inghilterra».

UK patria dello yachting e tappa obbligata se si vuole diventare designer di livello?
«Nella crescita di un professionista la formazione passa anche attraverso la scuola british. Il destino ha poi giocato a mio favore. Nel 2003 Ken Freivokh cercava un bravo designer italiano per lavorare al progetto del Falcone Maltese di Perini Navi, 88 metri di lunghezza, tre alberi rotanti in carbonio, il committente si chiamava Tom Perkins, magnate della HewlettPackard… Avevo le credenziali giuste per partecipare alla realizzazione del veliero più grande del mondo. Dagli inglesi ho imparato l’organizzazione perfetta e pragmatica del lavoro. Da noi, invece, la creatività è al primo posto. Nuvolari & Lenard, ad esempio, mi hanno insegnato l’essenzialità del disegno a mano, la macchina (il computer) è il passaggio successivo. Solo così si riescono a ridefinire la bellezza, l’equilibrio, il senso delle proporzioni e del dettaglio per ogni nuova ideazione».

Progettare una barca di successo

Come si fa a progettare una barca di successo?
«La parte estetica è la base da cui tutto si muove. Quindi parto da una bella idea, cerco di calarmi nella testa del cliente e mi confronto con il cantiere. Studiare la storia e i valori che lo yacht deve trasmettere è una delle parti più complesse perché il progetto deve contenere sia la filosofia del brand sia lo stile del designer. I due aspetti messi insieme ne decretano il successo. Nel 2016 ho vinto il Design Contest (una gara internazionale tra designer che competono per creare una proposta corrispondente al brief del cliente) che mi ha permesso di entrare nel team inglese di Fairline proprio grazie a una proposta che riusciva a tramandare, nella visione futura, il DNA del marchio».

Ascoltare le esigenze dell’armatore e del cantiere. Alla fine quanto rimane realmente della sua idea? «L’approccio che definirei più romantico (e mi è capitato) è quando il cantiere sposa la tua idea e le modifiche sono poche. Questo è molto molto gratificante. La parte più difficile, ma anche stimolante, è quando ti devi misurare/scontrare con le posizioni degli ingegneri, con i budget e quindi si scende per forza a compromessi».

Un esempio di congiuntura perfetta designer cantiere cliente?
«Senza dubbio il Mangusta Oceano 42 presentato lo scorso settembre ai saloni di Cannes e Montecarlo. È un progetto nato da un incontro fortuito alla fiera di Genova di qualche anno fa. Il cantiere mi aveva chiesto un modello sportivo, elegante, dove fosse riconoscibile il suo family feeling, ma diverso. E questo “diverso” è diventato l’idea vincente. Ne è nato uno yacht che esprime le sue proporzioni attraverso un mix di linee tese ed affilate, tipiche delle auto, unite a sezioni più morbide con uno studio attento della luce in tutti gli ambienti. Mi piace ricordare che la barca è stata venduta sulla carta».

Non mi parla del coinvolgimento dell’armatore?
«La situazione più affascinate è quando l’armatore “bussa” alla porta del tuo studio, si siede a parlare con te come farebbe con il suo sarto e ti spiega come sua moglie vorrebbe il suo abito...L’armatrice ha un potere assoluto. Poi ci sono casi in cui il cliente ti dà carta bianca perché non ha tempo, ti rifila cataloghi con quello che vorrebbe. In sintesi, più tempo passi con i proprietari, visiti le loro case, ne scopri i gusti e più le probabilità che la tua proposta venga accolta aumentano».

Mangusta Oceano 42

​Tornando al Mangusta Oceano 42 quali sono le parti dove ha potuto esprimersi al meglio?
«La prua con la piscina con gli skylight che permettono agli armatori, quando entrano nei rispettivi bagni, di avere la sensazione di essere sott’acqua, grazie alla riflessione della luce ad ogni ora del giorno e della notte con toni sempre diversi. È stato un lavoro molto difficile e su un 42 metri non si era mai visto».

E a proposito del beach club con vetrate panoramiche come l'ha spuntata? «Una bella sfida con gli ingegneri. Essendo un giovane designer sapevo di non poter imporre qualcosa troppo fuori dagli schemi, ma ho sfidato la sorte. Si trattava di costruire, oltre alla piscina con i lucernari sul fondo di cui ho detto, una poppa "vetrata" che si ribalta completamente con una serie di tagli orizzontali che portano luce all’interno e consentono di veder il fondale una volta aperta. Una complicazione estrema dal punto di vista ingegneristico, costosissima, ma mi hanno dato fiducia e il risultato è irresistibile».

Quanto è importante il rapporto tra ingegneri e designer per centrare l’obiettivo? «Molta nautica è rimasta conservatrice, prigioniera di certi schemi e ovviamente dei budget. Il designer ha molta libertà di pensiero, ha tempo e si deve confrontare con gli uffici tecnici dei cantieri che sono sempre sotto pressione e spesso restii ad accogliere troppe modifiche soprattutto strutturali. Nel caso del Mangusta Oceano 43, il cantiere ha colto al volo la mia idea».

la collaborazione con gli inglesi di Fairline

Dopo tante collaborazioni a un certo punto arrivano gli inglesi di Fairline che le affidano il futuro della loro linea tanto da far affermare a Russel Carry, manager director del cantiere: 'abbiamo deciso di mettere insieme il fiuto e lo stile di Mancini'. Come sta andando?
«Lavorare con gli inglesi non è facile. Ti scontri con un mondo conservatore, abituato a uno stile poco incline ai cambiamenti quando, invece, il modo migliore per creare un prodotto di successo è avere carta bianca, quindi un bel foglio su cui tracciare il nuovo. È anche un rischio ma, se non osi, rimani dove sei. Ed è quello che sto facendo in Fairline».

Il futuro Fairline è dunque un bel mix di Europa: design italiano, architettura navale olandese e artigianalità inglese…
«Si è creata la giusta combinazione di protagonisti importanti che hanno dato vita a un team equilibrato. Il designer italiano ha la creatività nel sangue ed è l’istinto messo su carta e, quindi, a me spetta il ruolo di introdurre il cambiamento. Questa collaborazione mi ricorda il periodo tra gli anni ’50 e ’60, quando famose case automobilistiche britanniche e le case di stile italiane Pininfarina, Touring Superleggera e Zagato hanno dato vita ad alcuni dei più eleganti e classici design del mondo».

Come sarà il cambiamento e su quali barche lo vedremo?
«La gamma Fairline va da 40’ ai 95’ di lunghezza. Attualmente sto lavorando a un progetto ambizioso del nuovo Targa 63’ GTO con linee sportive, skylight di vetro a prua per portare luce nella cabina vip e una ricerca, negli interni, per valorizzare gli spazi dell’armatoriale con vetrate a murata, mai vista a bordo di una barca di queste dimensioni e una plancetta di poppa che non esito a definire esagerata». Mai pensato alla grande serie? «Per ora preferisco concentrarmi sulla nicchia dei superyacht anche se lavorare con un cantiere che fa grandi numeri sarà, prima o poi, un percorso da esplorare». Quando le viene l’ispirazione disegna a matita o al computer? «Foglio bianco e matita o su tablet. Parto con uno schizzo, disegno soprattutto di notte, il momento in cui riesco ad esprimere al meglio la mia creatività». Un’ultima domanda, perché è tornato a Trieste e non ha scelto Milano o Montecarlo? «Diciamo un ritorno alle origini. Qui ho una qualità di vita che non avrei altrove e nelle giornate terse si può vedere tutto il golfo di Trieste fino alla Croazia. Così l’ispirazione arriva da sola e quando voglio salgo a bordo del mio Chris Caft e vado a fare il bagno».

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