Il grande cambiamento dell’America’s Cup ha creato una forte spaccatura tra i suoi appassionati. Da una parte, i conservatori che amavano il gigantismo delle imbarcazioni e la purezza del match race, certamente più apprezzabile con i monoscafi che non con i catamarani, si disperano; dall’altra, i riformisti, affascinati da una vela più tecnologica, moderna e veloce, gioiscono.
In passato, tante volte, si è abusato con la retorica di attribuire alla Coppa America il ruolo di Formula Uno della vela. Alla vigilia della 35esima edizione, però, bisogna ammettere che, come mai nelle volte precedenti, il paragone ha ragione di esistere. I catamarani della nuova America’s Cup Class sono effettivamente delle schegge impazzite, che volano sulla superficie del mare sollevati dai foil e non toccano quasi mai l’acqua con gli scafi, neanche in virata e in strambata. Lunghi 15 metri, larghi 8,48 m, pesanti tra i 2.332 e 2.432 chili, con una superficie velica di 103 metri quadri, compresa l’ala rigida alta 23,5 metri, sono difficili da domare. Hanno una velocità di punta di 45 nodi, ma in tanti sono pronti a scommettere che durante le regate di Coppa qualcuno riuscirà a raggiungere la barriera dei 50. Per dare un’idea di che “macchine da corsa” siano, è sufficiente sapere che sono grandi appena un terzo dei giganteschi catamarani di 72 piedi della Coppa America di quattro anni fa a San Francisco, ma sono più veloci. I membri d’equipaggio sembrano dei piloti. Oltre al casco e alle protezioni in varie parti del corpo, necessarie per diminuire il rischio (reale) di infortuni, indossano delle cuffie audio e dei microfoni, altrimenti, pur stando raggruppati e vicini, non riuscirebbero a comunicare per via del vento e dell’aria che li investe.