04 July 2012

Imposta di possesso, risparmiare sulla tassa, ma...

Trasferimento all’estero, cambio di bandiera, riduzione lunghezza scafo, costituzione di società di comodo. Le principali scorciatoie per non pagare il balzello sulla barca. Difficili da realizzare, ci si trova a pagare più del costo stesso del canone, oltre a eventuali pesanti sanzioni

Imposta di possesso, risparmiare sulla tassa, ma...

In seguito all’introduzione della tassa di possesso delle unità da diporto c’è chi cerca di evitare il balzello o di ridurne la portata. Spesso, però, alla fine di rocambolesche attività dirette in questa direzione - cambi di bandiera, accorciamenti strutturali delle barche, costituzioni di società charteristiche di comodo ecc. - i risultati sperati non solo non si realizzano, ma ci si trova a pagare più di quanto è il costo stesso della tassa, oltre a eventuali pesanti sanzioni.

Da quando la tassa è stata introdotta, siamo stati letteralmente sommersi da lettere e telefonate di nostri lettori: a parte il generale risentimento verso un’imposta ritenuta iniqua ed eccessiva, abbiamo registrato una casistica di comportamenti “anti-tassa” di cui molti sentono l’attrazione, che vale la pena di elencare.

 

Trasferimento all’estero o cambio bandiera

La prima stesura della tassa, trasformatasi poi in imposta annuale sull’uso e proprietà, ma nata come tassa di stazionamento, vale a dire d’ormeggio, ha aperto la rotta di moltie barche italiane verso i porti esteri, comunitari o extra UE, che si sono allontanate dalle nostre acque con il proposito (corretto) di annullare uno dei requisiti base della tassa, cioè la territorialità, evitando il pagamento. Sappiamo che di questa trasmigrazione se ne sono avvantaggiati soprattutto le vicine Francia e Croazia, che hanno registrato centinaia di nuovi contratti di locazione di posti barca, non solo a favore delle nostre barche, ma anche estere, abitualmente stazionanti in Italia, com’è stato il caso critico della fuga delle bandiere tedesche e austriache dai porti del litorale Veneto-Friuli, in direzione delle sponde vicine di Slovenia e Croazia.

Nella sua forma definitiva e attualmente in vigore, il requisito impositivo della territorialità – obbligo di pagamento legato alla sosta nelle acque territoriali dell’unità da diporto – è venuto a cadere, valendo ora il principio del “possesso”, ovvero della “disponibilità”  dell’unità da diporto riconducibile a soggetti residenti nel territorio italiano.

Di conseguenza se il proprietario (o utilizzatore ecc.) di un’unità da diporto di bandiera italiana (per dimensioni, soggetta alla tassa), la trasferisce all’estero, è comunque soggetto al pagamento della tassa in Italia. Per lo stesso motivo, anche il cambio di bandiera, cioè il trasferimento dell’unità nazionale presso un registro comunitario o, dove possibile, extra UE, non annulla gli effetti  dell’imposizione fiscale.

Invece, non sono soggetti al pagamento della tassa le persone fisiche che non sono residenti in Italia o le società che non abbiano la loro sede legale nel nostro Paese, anche se “dispongono” di un’unità di bandiera italiana.

Quest'ultimo passaggio, che di fatto esime dal pagamento della tassa gli “stranieri”, sia nel caso abbiano una barca di bandiera italiana, sia di altro Stato, non gode di ampia “reciprocità” internazionale.

Il caso francese, ad esempio, è emblematico: il soggetto residente in Italia che possiede un’unità “francesizzata” – cioè sotto bandiera francese (spesso in seguito al riscatto del leasing) – paga sia “le droit annuel de francisation et de navigation (DAFN)”, se l’unità ha una lunghezza scafo uguale o superiore a 7 metri o una potenza superiore a 22 cv, sia la nostra tassa annuale, con importi che se non sono equivalenti, molto si avvicinano.

 

Riduzione lunghezza scafo

L’obbligo e l’importo della tassa annuale sono in funzione della lunghezza dello scafo, misurata secondo la norma armonizzata EN ISO 8666. Per le unità marcate CE, tale lunghezza è riportata nei documenti ufficiali di marcatura, ad esempio, nella dichiarazione di conformità del fabbricante.

Per le unità prive di marcatura CE, che non dispongono del dato “lunghezza scafo” determinato all’origine, ma della lunghezza fuori tutto, spesso superiore alla lunghezza scafo, l’Agenzia delle entrate ha precisato che per la valutazione dell’importo da versare “occorre fare riferimento per l’individuazione della lunghezza dell’imbarcazione alla distanza, misurata in linea retta, tra il punto estremo anteriore della prora e il punto estremo posteriore della poppa, escluse le appendici”.  Definizione all’incirca equivalente a quella per “lunghezza scafo”della EN 8666, addirittura più ”concessiva”.

Quindi, stando alle precisazioni dell’Agenzia, indipendentemente da quanto indicato nella licenza di navigazione (lunghezza fuori tutto), per le unità non marcate CE, ai fini dell’imposizione, vale il dato lunghezza ricavato secondo i criteri impartiti.

La misurazione dello scafo deve essere eseguita, però, a barca “integra”.

Se s’interviene asportando pezzi della prua o della poppa, anche minimi, con lo scopo di ridurre la lunghezza, sia per entrare nella fascia di esonero (fino a 10 metri), sia per accedere a classi più basse di tassazione, l’unità deve essere sottoposta a marcatura CE, secondo la procedura di post-costruzione (art. 9 del D. L.vo 171/2005). Infatti, in seguito alla modifica strutturale, l’unità presenta una nuova configurazione, cioè assume la veste di un “nuovo prodotto” che come tale, per essere messo in “commercio” o in servizio, deve essere marcato in base alla direttiva 94/25/CE-2003/44/CE.

La spesa per la marcatura CE di post costruzione, con obbligo d’intervento di un Organismo Notificato,  non è certamente a buon mercato, ovviamente se è eseguita da un Ente tecnico serio. Infatti, a parte i costi di certificazione, sempre sull’ordine di qualche migliaio di euro, gli interventi cantieristici per rendere conforme l’unità alla direttiva, con sostituzione anche di componenti e accessori non a “norma” CE, possono essere rilevanti.

 

Costituzione di società di comodo

La pratica di costituire società di “comodo” di locazione e/o noleggio, cioè di fatto non operative, per mantenere le proprietà di unità, altrimenti di proprietà dei soci, è abbastanza nota e anche al fisco.

La normativa antielusione in vigore è però sufficientemente attenta e mette in atto degli automatismi fiscali, oltre che di accertamento, difficili da schivare e tutt’altro che a buon mercato, sia per l’applicazione di presunzioni di redditi, anche se questi non ci sono, sia ai fini dell’Iva e altro.

Per ovviare il pagamento della tassa, non ci sembra che le società di comodo risolvano la questione (ci riferiamo a piccole realtà societarie e non a grosse “shipping company” internazionali, con strutture in formato “matrioska”, attraverso cui le tracce delle proprietà di grandi yacht vengono facilmente a perdersi).

Tra l’altro, se da una parte è vero che le societàdi “charter” (ma anche le scuole nautiche e diving) sono esenti dal pagamento della tassa per le unità che costituiscono beni strumentali dell’azienda, è altrettanto vero che il locatario o il noleggiatore (i soggetti che prendono in “affitto” la barca) devono invece pagarla per la durata del contratto. E quindi i risultati, sul fronte del risparmio, sono decisamente pochi.

E’ meglio quindi fare bene i conti prima d’intraprendere queste soluzioni.

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