Sul mare con le galee di San Marco
Il 1400 è l’apogeo dell’espansione delle galee veneziane, un sofisticato mezzo
di trasporto di merci e passeggeri nel Mediterraneo. Come navigavano?
Nel Medioevo e per tutto il Rinascimento sono esistiti due tipi di galee, ben
distinte tra loro: le «galee sottili», che erano destinate quasi esclusivamente
alla guerra, e la «galee grosse» o «da mercato», che venivano impiegate per il
trasporto di merci o passeggeri.
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Le galee veneziane
Sul mare con le galee di San Marco
Il 1400 è l’apogeo dell’espansione delle galee veneziane, un sofisticato mezzo
di trasporto di merci e passeggeri nel Mediterraneo. Come navigavano?
Nel Medioevo e per tutto il Rinascimento sono esistiti due tipi di galee, ben
distinte tra loro: le «galee sottili», che erano destinate quasi esclusivamente
alla guerra, e la «galee grosse» o «da mercato», che venivano impiegate per il
trasporto di merci o passeggeri.
Contrariamente a quanto spesso si crede e si legge (soprattutto sui libri di
scuola), le galee da mercato non erano le uniche navi che viaggiavano sotto la
bandiera di San Marco: anzi, la maggior parte della flotta mercantile, dal
punto di vista numerico e da quello del tonnellaggio, era composta da navi a
vela.
Le galee da mercato però erano navi speciali che trasportavano le merci più
preziose dal punto di vista del valore, e questo spiega la loro straordinaria
importanza. Prima di tutto erano navi costruite dallo stato e venivano
noleggiate ai nobili (detti patroni) che organizzavano la campagna raccogliendo
le merci dei mercanti.
Una galea da mercato dei primi del Quattrocento, dalla Fabrica di galere.
Le galee viaggiavano in convogli composti da tre o quattro navi, la cui rotta
era stabilita dal Senato nei minimi dettagli e non poteva essere modificata: le
varie mude, così si chiamavano i convogli, percorrevano una o due volte l’anno
i percorsi prestabiliti raggiungendo Costantinopoli e il Mar Nero (muda di
Romania), oppure il medio Oriente (muda di Beirut e Alessandria), o ancora la
Francia meridionale (muda di Aigues Mortes, porto alla foce del Rodano), o l’
Inghilterra e l’Olanda (muda di Fiandre) o infine la Tunisia e l’Algeria (muda
al Trafégo).
L’importanza di queste navi consisteva nel fatto che avendo un equipaggio
numeroso (almeno 250 uomini tra marinai e rematori) erano considerate
estremamente sicure e quindi venivano destinate a trasportare i carichi più
preziosi e più leggeri: le spezie, le sete, l’argento e l’oro.
Quando nel corso del Quattrocento i pellegrinaggi in Terrasanta conobbero una
grande diffusione, Venezia organizzò ogni anno una o anche due galee destinate
esclusivamente a questo traffico particolare.
Questa circostanza riveste per lo storico un estremo interesse, perché alcuni
di questi viaggiatori hanno scritto un resoconto dettagliato del loro viaggio
che sono giunti fino a noi, consentendoci di ricostruire nei dettagli lo stile
di navigazione di queste navi.
Le navi
Le navi
Le galee da mercato erano navi lunghe circa 37 metri al ponte (23 passi e 3
piedi veneziani, come spiegano i quaderni dei capimastri dell’Arsenale di
Venezia che sono giunti fino a noi) e larghe poco più di sei, con un’altezza di
puntale tra i 2,5 e i 3 metri. La caratteristica più nota di queste navi è il
fatto di essere dotate di circa 150 remi, ciascuno dei quali mosso da un solo
uomo, e questo ha generato l’errata convinzione che usassero prevalentemente
questo mezzo di propulsione.
Niente di più errato. Anche se è vero che le linee d’acqua degli scafi delle
galee, ricostruiti oggi al computer, sono simmetriche e dimostrano la loro
derivazione da imbarcazioni a remi, di fatto le galee navigavano
prevalentemente a vela e usavano i remi solo come propulsione d’emergenza. Gli
studi fatti già negli anni Sessanta sui diari di navigazione di unità impegnate
in missioni ufficiali (trasporto di ambasciatori) permettono di stimare che una
galea sottile, quindi un’unità da guerra, navigasse a remi per circa il 25% del
tempo (il 44% se si considera il tempo passato a navigare a vela e a remi
insieme), mentre i documenti relativi alle galee da mercato permettono di
dimostrare che questo genere di unità navigava a remi solo per 2,5% del tempo
(il 9% se si considera anche la propulsione mista).
Le prestazioni che potevano raggiungere sotto vela erano notevoli, come d’altra
parte ci si può aspettare da navi con un coefficiente di finezza così buono.
Con vento a favore potevano raggiungere comodamente i cinque o sei nodi di
velocità; tuttavia, dai diari dei pellegrini che andavano in Terrasanta risulta
che le navi percorrevano intere tratte a una media di oltre sette nodi,
ipotizzando una condizione certamente irrealistica, ovvero che le galee
riuscissero a navigare in linea retta.
Dal manoscritto del Grünemberg, alcune navi tra cui una galea in primo piano
ormeggiate vicino a Cipro.
Nel viaggio di ritorno nel suo viaggio del 1494 il pellegrino Pietro Casola,
spinto da un forte scirocco, viaggiò da Curzola fino al Quarnaro a una media di
nove nodi. Vengono riferite velocità perfino di 12 nodi.
Il grande storico Fernand Braudel parla di una galea che in un solo giorno ha
effettuato la traversata da Zara a Venezia (circa 150 miglia). Si tratta
naturalmente di prestazioni legate all’intensità del vento e questo significa
che, date le caratteristiche climatiche del Mediterraneo, la media complessiva
dei viaggi dei pellegrini sulla tratta Venezia-Palestina era solo di 2,8 nodi.
Le prestazioni delle galee erano notevoli anche dal punto di vista dell’angolo
di bolina. Qui purtroppo le fonti sono decisamente più tarde, perché risalgono
al Seicento; d’altra parte all’epoca era più facile fare confronti con le navi
a vela quadra che ormai si erano imposte. In questo caso le vele latine,
ovviamente, favorivano le galee, che sono accreditate di un angolo di bolina di
cinque punti o rombi (ossia 55°), che scendono a quattro (45°) se si aiutavano
con i remi: un risultato notevole, di circa 20° migliore delle navi a vele
quadre dell’epoca, reso possibile appunto dalla diversa e migliore velatura.
A proposito dell’alberatura, abbiamo l’indicazione precisa nel testo di un
pellegrino milanese del 1480, Santo Brasca, che si trattava di un’attrezzatura
con sartie volanti: «Al dicto arboro [cioè quello di maestra] stavano pendenti
de molte et avea XII sartie per parte attachate a la sponda de la Galea, e se
tiravano dal lato contrario a la vella secondo li tempi e li venti».
Una galea grossa tratta dal manoscritto del Grünemberg
Le vele non potevano essere terzaruolate (solo nel Cinquecento compaiono delle
immagini di terzaroli, disposti diagonalmente a partire dall’angolo di mura
della vela fino al lato di caduta): quando il vento rinforzava si doveva
abbassare l’antenna e cambiare la vela (dall’artimone, la vela più grande, si
passava al papafigho e poi alla cochina, la più piccola e di forma quadrata,
che veniva usata durante le tempeste). La manovra non era per niente semplice,
dato che l’antenna poteva essere lunga quasi quanto la nave. Sempre Santo
Brasca racconta che una volta, «calando la vela grande, li marinari lassorno
trascorrere le sartie, et l’anthena caschoe con tanta celerità et impetto che
le dicte sartie gettavano fuocho et amazoe uno de li balestrieri che insieme
con li altri coglieva la vela».
In realtà, restano ancora molte incertezze su come si svolgevano effettivamente
le virate. Alcune illustrazioni lasciano intendere che si poteva effettuare la
virata in prua disponendo l’antenna in posizione verticale, parallela all’
albero, facendo passare la vela a proravia dell’albero stesso. Sembra strano
però che si potesse davvero effettuare la manovra con un’asta lunga 20-25
metri; e infatti altre fonti lasciano intendere che l’antenna veniva ammainata
e fatta passare dall’altra parte dell’albero al momento della virata, per
evitare che la vela si disponesse (per usare un’espressione veneziana di oggi)
«a daredosso», ossia si appoggiasse all’albero perdendo efficacia.
Complessivamente quindi questo aspetto della marineria antica rimane incerto.
Comunque, le galee da mercato erano sostanzialmente delle navi a vela. A cosa
servivano allora i rematori?Fondamentalmente, prima dell’avvento dell’
artiglieria, servivano a difendersi. Come spiega lo storico americano Fredrick
Lane, «per le galee da mercato la loro capacità di difendersi era seconda come
importanza solo alla sua sicurezza in mare, giacché esse erano progettate per
combinare non solo alcuni dei vantaggi delle navi a remi con quelli delle navi
a vela, ma anche quelli di una nave da guerra con quelli di un mercantile.
Quando gli scontri navali non erano altro che battaglie terrestri trasportate
sulle navi, l’armamento essenziale di un vascello era l’equipaggio.
L’elevato numero di uomini necessari su una galea per manovrare i remi forniva
la base per una forza combattente molto più numerosa di quella che poteva
essere impiegata su una nave tonda. In tutto l’equipaggio di una galea da
mercato contava più di 200 uomini, ciascuno dei quali poteva essere chiamato a
prender parte alla sua difesa. Le armi per questo scopo venivano fornite dall’
Arsenale e trasportate in un apposito locale della stiva». Le galee da mercato
erano considerate così sicure che i mercanti tralasciavano di assicurare le
merci che vi imbarcavano, ritenendola una spesa inutile.
La vita a bordo
La vita a bordo
I diari dei pellegrini permettono di ricostruire in modo abbastanza accurato la
vita a bordo; molto più incerte, invece, le notizie sulla navigazione. Prima di
tutto, chi intendeva compiere un viaggio in Terrasanta stilava un vero e
proprio contratto, estremamente dettagliato, che precisava diritti e doveri
delle due parti (ossia del viaggiatore e del patronus della galea). A bordo i
pellegrini dormivano per lo più nella grande stiva della nave e, come scriveva
nel 1484 Felix Faber, si trattava di una «inquieta dormitione». I giacigli
erano disposti per madiere, e i pellegrini dormivano con il capo verso la
murata e i piedi verso il centronave. Non essendoci fonti di luci a parte il
boccaporto principale, ci si doveva avventurare portando con sé un lume. Felix
Faber allude alla continue liti, soprattutto all’inizio del viaggio, tra chi
voleva dormire e chi voleva rimanere sveglio, liti che spesso terminavano
appunto col lancio dei pitali sopra le candele irrispettose…
Al mattino, i bisogni corporali venivano espletati a prua, dove si trovavano
due appositi fori, davanti ai quali, nota il frate, si forma una coda «come in
quaresima davanti al confessore». In nave, sostiene Faber, occorre lavarsi
spesso, per evitare il rischio di prendere i pidocchi. «Ci sono molti invece
che non sono provvisti di ricambi, e sono avvolti in tali puzze e fetori, che
nella barba e nei capelli crescono i vermi» (ricordiamoci che prima dell’
invenzione del microscopio le uova dei parassiti erano invisibili e quindi si
accusava l’aria di «generare» questi animali). La puzza nella stiva, comunque,
era quasi insopportabile per le acque di sentina che non potevano mai essere
evacuate del tutto.
Il pranzo era consumato due volte al giorno, al mattino e alla sera, e gli
uomini a bordo venivano chiamati a tre «tavole» ben distinte a seconda del
rango sociale: gli uomini da remo mangiavano sui loro banchi; i marinai, i
balestrieri, il personale specializzato in genere a una mensa intermedia e
infine il comitus con lo stato maggiore della galea mangiavano «come se fossero
stati a Venezia».
Il cibo, un contratto
In effetti il contratto che i pellegrini stipulavano con il comitus prevedeva
anche il vitto, ma questo variava a seconda di quanto i viaggiatori erano
disposti a spendere, e tutte le «guide di viaggio» raccomandavano di portare a
bordo delle provviste in proprio per rinforzare le razioni di bordo. Era
normale portare anche qualche animale di piccola taglia che veniva tenuto in
una gabbia vicino alla cucina. Le uova e le bottiglie di vino, racconta Fabri,
venivano sistemate dai pellegrini nella sabbia che formava la zavorra della
galea, sollevando qualche asse del plancito, in modo da tenerle ferme e al
fresco.
Il vitto per i rematori si rifaceva al capitolo 142 del Consolato del Mare, la
raccolta di norme consuetudinarie che rappresentavano il punto di riferimento
per tutto il Mediterraneo: i marinai ricevevano per il pranzo mattutino carne
per tre giorni alla settimana, minestra negli altri; nel pranzo serale avevano
companaggio, ossia formaggio, o cipolle, o sarde secche. Il vino era
distribuito sia di mattina sia di sera, senza superare un determinato prezzo. L’
alternarsi degli alimenti garantiva un certo equilibrio alla dieta; la presenza
di carne tre volte alla settimana (soprattutto montone, a differenza di quanto
faranno nei secoli successivi i popoli anglosassoni che preferiranno il bue)
poneva questa dieta a un ottimo livello di proteine animali per gli standard
del tempo, mentre il forte uso di cipolle nella preparazione della panica,
ossia la minestra con il biscotto, apportava una buona dose di antiscorbutici.
Il «biscotto» (ossia le gallette) erano distribuite tradizionalmente in razioni
da 18 once, ossia poco più di 6 etti.
Il problema era che questi valori ufficiali erano in realtà considerati come
equivalenti a un pagamento in moneta, e questo permetteva ai patroni di lucrare
sulle razioni effettivamente distribuite (per esempio con la scusa che una
parte del biscotto era andata polverizzata nel trasporto e quindi non era
utilizzabile) rendendo le condizioni di vita reale degli uomini di remo molto
precarie.
Il cibo
Il cibo, un contratto
In effetti il contratto che i pellegrini stipulavano con il comitus prevedeva
anche il vitto, ma questo variava a seconda di quanto i viaggiatori erano
disposti a spendere, e tutte le «guide di viaggio» raccomandavano di portare a
bordo delle provviste in proprio per rinforzare le razioni di bordo. Era
normale portare anche qualche animale di piccola taglia che veniva tenuto in
una gabbia vicino alla cucina.
Le uova e le bottiglie di vino, racconta Fabri, venivano sistemate dai
pellegrini nella sabbia che formava la zavorra della galea, sollevando qualche
asse del plancito, in modo da tenerle ferme e al fresco.
Il vitto per i rematori si rifaceva al capitolo 142 del Consolato del Mare, la
raccolta di norme consuetudinarie che rappresentavano il punto di riferimento
per tutto il Mediterraneo: i marinai ricevevano per il pranzo mattutino carne
per tre giorni alla settimana, minestra negli altri; nel pranzo serale avevano
companaggio, ossia formaggio, o cipolle, o sarde secche.
Il vino era distribuito sia di mattina sia di sera, senza superare un
determinato prezzo. L’alternarsi degli alimenti garantiva un certo equilibrio
alla dieta; la presenza di carne tre volte alla settimana (soprattutto montone,
a differenza di quanto faranno nei secoli successivi i popoli anglosassoni che
preferiranno il bue) poneva questa dieta a un ottimo livello di proteine
animali per gli standard del tempo, mentre il forte uso di cipolle nella
preparazione della panica, ossia la minestra con il biscotto, apportava una
buona dose di antiscorbutici.
Il «biscotto» (ossia le gallette) erano distribuite tradizionalmente in razioni
da 18 once, ossia poco più di 6 etti.
Il problema era che questi valori ufficiali erano in realtà considerati come
equivalenti a un pagamento in moneta, e questo permetteva ai patroni di lucrare
sulle razioni effettivamente distribuite (per esempio con la scusa che una
parte del biscotto era andata polverizzata nel trasporto e quindi non era
utilizzabile) rendendo le condizioni di vita reale degli uomini di remo molto
precarie.
La mesa
Era la tavola del patronus della galea, alla quale era invitato lo stato
maggiore della nave più i passeggeri che erano disposti a pagare in proporzione
al servizio che veniva loro offerto.
La lista delle scorte di un mesa del 1414 era lunghissima: vino, malvasia,
aceto, grasso fino, olio, formaggio di Puglia e dolce, piselli, fave, ceci,
fagioli, sorgo, orzo e farina d’orzo, riso, lasagne, zafferano e spezie varie,
uva passa nera, insalata, cipolla e verdure, mandorle, zucchero rosato, miele,
pane fresco, biscotto bianco, oltre 9.000 uova, pesce fresco, 400 anguille,
pesce salato, qualche centinaia di libbre di carne salata, nove quintali di
carne macellata, 13 galline, 7 manzi.
Un racconto
La descrizione di Felix Faber
«La galea sulla quale io compii il mio secondo viaggio aveva sessanta banchi e
sopra ciascuno di essi tre rematori con i loro remi: e per essere attrezzata
come nave da guerra aveva un arciere con il suo arco su ciascun banco insieme
ai rematori. Ora tutte le galee delle stesse dimensioni sono così simili da
ogni punto di vista che chi passi dalla propria su un’altra potrebbe a fatica
accorgersi della differenza, eccetto il fatto che sono diversi gli ufficiali e
i membri dell’equipaggio, perché le galee veneziane si assomigliano come gocce
d’acqua. …
La prima parte della galea, quella anteriore, che è detta prua, è affilata dove
incontra il mare, e ha un robusto rostro… Su ciascun lato del rostro ci sono
due fori, attraverso cui passa la testa di un uomo, e attraverso cui passano i
cavi delle ancore ... la prua ha una sua propria vela, detta dalum, chiamata
comunemente trinketum; sotto di questa si trova un piccolo locale dove sono
stivati cavi e vele; qui dorme il capitano della prua, che un suo proprio
equipaggio che sta li e in nessun altro posto, e fa il lavoro di quella parte
della nave; questo è anche il luogo dei poveracci raccattati dagli schiavi
[sic!] di prua. Inoltre su tutti e due i lati della prua pendono grandi ancore
di ferro che vengono calate in mare nei momenti opportuni. La poppa, che è l’
altra ed estrema propaggine della galea, non è appuntita come la prua e non ha
un rostro ma è ampia e curva … ed è molto più alta della prua con sopra una
costruzione che essi chiamano il castello. …
Il castello ha tre piani: il primo è quello dove si trovano il timoniere e la
bussola, e l’uomo che dice al timoniere che cosa segna la bussola, e coloro che
osservano le stelle e i venti e indicano la rotta attraverso il mare; il piano
intermedio è quello in cui si trova la cabina del Signore e capitano della
nave, e dei suoi nobili compagni e commensali; e quello più basso è quello in
cui vengono sistemate per la notte le nobili signore, e in cui si trova il
tesoro del capitano. Questo locale non riceve luce se non dal boccaporto del
ponte di sopra. Da ciascun lato della poppa pendono dei battelli, uno grande e
uno piccolo, che vengono calati in acqua nei porti e usati per sbarcare la
gente. Sul lato destro c’è una scaletta che si usa per scendere nei battelli in
mare o per risalirne.
…Sopra la poppa poi è sempre issata la bandiera per indicare da quale direzione
stia soffiando il vento. Partendo dal castello di poppa, dopo un intervallo di
due banchi, sul lato destro c’è la cucina, che non è protetta da niente: sotto
la cucina c’è la cambusa, e accanto si trova il recinto degli animali destinati
al macello, in cui stanno tutti insieme pecore, capre, vitelli, oche, mucche e
maiali. Più oltre, sullo stesso lato per tutta la lunghezza della nave fino a
prua si trovano banchi con i remi. Sul lato di sinistra ci sono banchi di
rematori senza interruzioni da poppa a prua, e su ogni banco si trovano tre
rematori e un arciere. …Nel centro della nave sta l’albero, alto, grosso e
robusto, realizzato con molte travi fissate insieme, che porta il pennone con l’
accaton, o vela principale. In cima all’albero c’è quello che i tedeschi
chiamano il “cesto”, gli italiani la “keba”, i latini “carceria”. Sul ponte,
vicino all’albero, c’è uno spazio aperto dove ci si riunisce a parlare, come in
un mercato; ed è chiamato il mercato della galea. La vela principale è divisa
in cinquantatré pezzi di stoffa, ciascuno dei quali misura più di un metro, ma
per affrontare i diversi tipi di tempo vengono issati diversi tipi di vela
…Tra i banchi c’è uno spazio abbastanza ampio, dove stanno grandi casse piene
di mercanzia, e a un livello più alto di queste casse c’è una passerella che
corre da prua a poppa, sulla quale gli ufficiali corrono su e giù quando si va
a remi. Vicino all’albero maestro c’è il boccaporto principale, attraverso il
quale si scende con sette gradini nel locale dove i pellegrini vivono, o dove
viene sistemato il carico nelle galee da trasporto. Lungo il lato esterno della
galea ci sono i posti per le necessità fisiologiche. L’intera galea, di dentro
e di fuori, è coperta della pece più nera, così come cavi, tavole e ogni altra
cosa in modo che l’acqua non possa farla marcire facilmente. I cavi per
manovrare le vele e le ancore occupano una gran parte della galea, perché sono
numerosi, lunghi, grossi e di diversi tipi.
È mirabile vedere la moltitudine di cavi e delle loro giunzioni e dei loro
intrecci in giro per il vascello. Una galea è come un monastero perché il posto
della preghiera è sul ponte di coperta vicino all’albero maestro, dove c’è
anche il mercato; la parte di mezzo della poppa corrisponde al refettorio; i
banchi dei galeotti e i giacigli dei pellegrini sono il dormitorio; la sala del
capitolo è di fronte alla cucina; le prigioni sono sotto il ponte della prua e
della poppa; la cambusa, la cucina e la stalla sono tutte a cielo aperto sul
ponte di coperta. Così, in poche parole, e tralasciando molti dettagli, hai l’
immagine di una galea»
(Da: Evagatorium in Terrae Santae, Arabile et Egypti peregrinationem)
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