29 October 2007

Le galee veneziane

Sul mare con le galee di San Marco Il 1400 è l’apogeo dell’espansione delle galee veneziane, un sofisticato mezzo di trasporto di merci e passeggeri nel Mediterraneo. Come navigavano? Nel Medioevo e per tutto il Rinascimento sono esistiti due tipi di galee, ben distinte tra loro: le «galee sottili», che erano destinate quasi esclusivamente alla guerra, e la «galee grosse» o «da mercato», che venivano impiegate per il trasporto di merci o passeggeri. Cont...

Le galee veneziane

Sul mare con le galee di San Marco Il 1400 è l’apogeo dell’espansione delle galee veneziane, un sofisticato mezzo di trasporto di merci e passeggeri nel Mediterraneo. Come navigavano? Nel Medioevo e per tutto il Rinascimento sono esistiti due tipi di galee, ben distinte tra loro: le «galee sottili», che erano destinate quasi esclusivamente alla guerra, e la «galee grosse» o «da mercato», che venivano impiegate per il trasporto di merci o passeggeri. Contrariamente a quanto spesso si crede e si legge (soprattutto sui libri di scuola), le galee da mercato non erano le uniche navi che viaggiavano sotto la bandiera di San Marco: anzi, la maggior parte della flotta mercantile, dal punto di vista numerico e da quello del tonnellaggio, era composta da navi a vela. Le galee da mercato però erano navi speciali che trasportavano le merci più preziose dal punto di vista del valore, e questo spiega la loro straordinaria importanza. Prima di tutto erano navi costruite dallo stato e venivano noleggiate ai nobili (detti patroni) che organizzavano la campagna raccogliendo le merci dei mercanti. Una galea da mercato dei primi del Quattrocento, dalla Fabrica di galere. Le galee viaggiavano in convogli composti da tre o quattro navi, la cui rotta era stabilita dal Senato nei minimi dettagli e non poteva essere modificata: le varie mude, così si chiamavano i convogli, percorrevano una o due volte l’anno i percorsi prestabiliti raggiungendo Costantinopoli e il Mar Nero (muda di Romania), oppure il medio Oriente (muda di Beirut e Alessandria), o ancora la Francia meridionale (muda di Aigues Mortes, porto alla foce del Rodano), o l’ Inghilterra e l’Olanda (muda di Fiandre) o infine la Tunisia e l’Algeria (muda al Trafégo). L’importanza di queste navi consisteva nel fatto che avendo un equipaggio numeroso (almeno 250 uomini tra marinai e rematori) erano considerate estremamente sicure e quindi venivano destinate a trasportare i carichi più preziosi e più leggeri: le spezie, le sete, l’argento e l’oro. Quando nel corso del Quattrocento i pellegrinaggi in Terrasanta conobbero una grande diffusione, Venezia organizzò ogni anno una o anche due galee destinate esclusivamente a questo traffico particolare. Questa circostanza riveste per lo storico un estremo interesse, perché alcuni di questi viaggiatori hanno scritto un resoconto dettagliato del loro viaggio che sono giunti fino a noi, consentendoci di ricostruire nei dettagli lo stile di navigazione di queste navi.

Le navi

Le navi Le galee da mercato erano navi lunghe circa 37 metri al ponte (23 passi e 3 piedi veneziani, come spiegano i quaderni dei capimastri dell’Arsenale di Venezia che sono giunti fino a noi) e larghe poco più di sei, con un’altezza di puntale tra i 2,5 e i 3 metri. La caratteristica più nota di queste navi è il fatto di essere dotate di circa 150 remi, ciascuno dei quali mosso da un solo uomo, e questo ha generato l’errata convinzione che usassero prevalentemente questo mezzo di propulsione. Niente di più errato. Anche se è vero che le linee d’acqua degli scafi delle galee, ricostruiti oggi al computer, sono simmetriche e dimostrano la loro derivazione da imbarcazioni a remi, di fatto le galee navigavano prevalentemente a vela e usavano i remi solo come propulsione d’emergenza. Gli studi fatti già negli anni Sessanta sui diari di navigazione di unità impegnate in missioni ufficiali (trasporto di ambasciatori) permettono di stimare che una galea sottile, quindi un’unità da guerra, navigasse a remi per circa il 25% del tempo (il 44% se si considera il tempo passato a navigare a vela e a remi insieme), mentre i documenti relativi alle galee da mercato permettono di dimostrare che questo genere di unità navigava a remi solo per 2,5% del tempo (il 9% se si considera anche la propulsione mista). Le prestazioni che potevano raggiungere sotto vela erano notevoli, come d’altra parte ci si può aspettare da navi con un coefficiente di finezza così buono. Con vento a favore potevano raggiungere comodamente i cinque o sei nodi di velocità; tuttavia, dai diari dei pellegrini che andavano in Terrasanta risulta che le navi percorrevano intere tratte a una media di oltre sette nodi, ipotizzando una condizione certamente irrealistica, ovvero che le galee riuscissero a navigare in linea retta. Dal manoscritto del Grünemberg, alcune navi tra cui una galea in primo piano ormeggiate vicino a Cipro. Nel viaggio di ritorno nel suo viaggio del 1494 il pellegrino Pietro Casola, spinto da un forte scirocco, viaggiò da Curzola fino al Quarnaro a una media di nove nodi. Vengono riferite velocità perfino di 12 nodi. Il grande storico Fernand Braudel parla di una galea che in un solo giorno ha effettuato la traversata da Zara a Venezia (circa 150 miglia). Si tratta naturalmente di prestazioni legate all’intensità del vento e questo significa che, date le caratteristiche climatiche del Mediterraneo, la media complessiva dei viaggi dei pellegrini sulla tratta Venezia-Palestina era solo di 2,8 nodi. Le prestazioni delle galee erano notevoli anche dal punto di vista dell’angolo di bolina. Qui purtroppo le fonti sono decisamente più tarde, perché risalgono al Seicento; d’altra parte all’epoca era più facile fare confronti con le navi a vela quadra che ormai si erano imposte. In questo caso le vele latine, ovviamente, favorivano le galee, che sono accreditate di un angolo di bolina di cinque punti o rombi (ossia 55°), che scendono a quattro (45°) se si aiutavano con i remi: un risultato notevole, di circa 20° migliore delle navi a vele quadre dell’epoca, reso possibile appunto dalla diversa e migliore velatura. A proposito dell’alberatura, abbiamo l’indicazione precisa nel testo di un pellegrino milanese del 1480, Santo Brasca, che si trattava di un’attrezzatura con sartie volanti: «Al dicto arboro [cioè quello di maestra] stavano pendenti de molte et avea XII sartie per parte attachate a la sponda de la Galea, e se tiravano dal lato contrario a la vella secondo li tempi e li venti». Una galea grossa tratta dal manoscritto del Grünemberg Le vele non potevano essere terzaruolate (solo nel Cinquecento compaiono delle immagini di terzaroli, disposti diagonalmente a partire dall’angolo di mura della vela fino al lato di caduta): quando il vento rinforzava si doveva abbassare l’antenna e cambiare la vela (dall’artimone, la vela più grande, si passava al papafigho e poi alla cochina, la più piccola e di forma quadrata, che veniva usata durante le tempeste). La manovra non era per niente semplice, dato che l’antenna poteva essere lunga quasi quanto la nave. Sempre Santo Brasca racconta che una volta, «calando la vela grande, li marinari lassorno trascorrere le sartie, et l’anthena caschoe con tanta celerità et impetto che le dicte sartie gettavano fuocho et amazoe uno de li balestrieri che insieme con li altri coglieva la vela». In realtà, restano ancora molte incertezze su come si svolgevano effettivamente le virate. Alcune illustrazioni lasciano intendere che si poteva effettuare la virata in prua disponendo l’antenna in posizione verticale, parallela all’ albero, facendo passare la vela a proravia dell’albero stesso. Sembra strano però che si potesse davvero effettuare la manovra con un’asta lunga 20-25 metri; e infatti altre fonti lasciano intendere che l’antenna veniva ammainata e fatta passare dall’altra parte dell’albero al momento della virata, per evitare che la vela si disponesse (per usare un’espressione veneziana di oggi) «a daredosso», ossia si appoggiasse all’albero perdendo efficacia. Complessivamente quindi questo aspetto della marineria antica rimane incerto. Comunque, le galee da mercato erano sostanzialmente delle navi a vela. A cosa servivano allora i rematori?Fondamentalmente, prima dell’avvento dell’ artiglieria, servivano a difendersi. Come spiega lo storico americano Fredrick Lane, «per le galee da mercato la loro capacità di difendersi era seconda come importanza solo alla sua sicurezza in mare, giacché esse erano progettate per combinare non solo alcuni dei vantaggi delle navi a remi con quelli delle navi a vela, ma anche quelli di una nave da guerra con quelli di un mercantile. Quando gli scontri navali non erano altro che battaglie terrestri trasportate sulle navi, l’armamento essenziale di un vascello era l’equipaggio. L’elevato numero di uomini necessari su una galea per manovrare i remi forniva la base per una forza combattente molto più numerosa di quella che poteva essere impiegata su una nave tonda. In tutto l’equipaggio di una galea da mercato contava più di 200 uomini, ciascuno dei quali poteva essere chiamato a prender parte alla sua difesa. Le armi per questo scopo venivano fornite dall’ Arsenale e trasportate in un apposito locale della stiva». Le galee da mercato erano considerate così sicure che i mercanti tralasciavano di assicurare le merci che vi imbarcavano, ritenendola una spesa inutile.

La vita a bordo

La vita a bordo I diari dei pellegrini permettono di ricostruire in modo abbastanza accurato la vita a bordo; molto più incerte, invece, le notizie sulla navigazione. Prima di tutto, chi intendeva compiere un viaggio in Terrasanta stilava un vero e proprio contratto, estremamente dettagliato, che precisava diritti e doveri delle due parti (ossia del viaggiatore e del patronus della galea). A bordo i pellegrini dormivano per lo più nella grande stiva della nave e, come scriveva nel 1484 Felix Faber, si trattava di una «inquieta dormitione». I giacigli erano disposti per madiere, e i pellegrini dormivano con il capo verso la murata e i piedi verso il centronave. Non essendoci fonti di luci a parte il boccaporto principale, ci si doveva avventurare portando con sé un lume. Felix Faber allude alla continue liti, soprattutto all’inizio del viaggio, tra chi voleva dormire e chi voleva rimanere sveglio, liti che spesso terminavano appunto col lancio dei pitali sopra le candele irrispettose… Al mattino, i bisogni corporali venivano espletati a prua, dove si trovavano due appositi fori, davanti ai quali, nota il frate, si forma una coda «come in quaresima davanti al confessore». In nave, sostiene Faber, occorre lavarsi spesso, per evitare il rischio di prendere i pidocchi. «Ci sono molti invece che non sono provvisti di ricambi, e sono avvolti in tali puzze e fetori, che nella barba e nei capelli crescono i vermi» (ricordiamoci che prima dell’ invenzione del microscopio le uova dei parassiti erano invisibili e quindi si accusava l’aria di «generare» questi animali). La puzza nella stiva, comunque, era quasi insopportabile per le acque di sentina che non potevano mai essere evacuate del tutto. Il pranzo era consumato due volte al giorno, al mattino e alla sera, e gli uomini a bordo venivano chiamati a tre «tavole» ben distinte a seconda del rango sociale: gli uomini da remo mangiavano sui loro banchi; i marinai, i balestrieri, il personale specializzato in genere a una mensa intermedia e infine il comitus con lo stato maggiore della galea mangiavano «come se fossero stati a Venezia». Il cibo, un contratto In effetti il contratto che i pellegrini stipulavano con il comitus prevedeva anche il vitto, ma questo variava a seconda di quanto i viaggiatori erano disposti a spendere, e tutte le «guide di viaggio» raccomandavano di portare a bordo delle provviste in proprio per rinforzare le razioni di bordo. Era normale portare anche qualche animale di piccola taglia che veniva tenuto in una gabbia vicino alla cucina. Le uova e le bottiglie di vino, racconta Fabri, venivano sistemate dai pellegrini nella sabbia che formava la zavorra della galea, sollevando qualche asse del plancito, in modo da tenerle ferme e al fresco. Il vitto per i rematori si rifaceva al capitolo 142 del Consolato del Mare, la raccolta di norme consuetudinarie che rappresentavano il punto di riferimento per tutto il Mediterraneo: i marinai ricevevano per il pranzo mattutino carne per tre giorni alla settimana, minestra negli altri; nel pranzo serale avevano companaggio, ossia formaggio, o cipolle, o sarde secche. Il vino era distribuito sia di mattina sia di sera, senza superare un determinato prezzo. L’ alternarsi degli alimenti garantiva un certo equilibrio alla dieta; la presenza di carne tre volte alla settimana (soprattutto montone, a differenza di quanto faranno nei secoli successivi i popoli anglosassoni che preferiranno il bue) poneva questa dieta a un ottimo livello di proteine animali per gli standard del tempo, mentre il forte uso di cipolle nella preparazione della panica, ossia la minestra con il biscotto, apportava una buona dose di antiscorbutici. Il «biscotto» (ossia le gallette) erano distribuite tradizionalmente in razioni da 18 once, ossia poco più di 6 etti. Il problema era che questi valori ufficiali erano in realtà considerati come equivalenti a un pagamento in moneta, e questo permetteva ai patroni di lucrare sulle razioni effettivamente distribuite (per esempio con la scusa che una parte del biscotto era andata polverizzata nel trasporto e quindi non era utilizzabile) rendendo le condizioni di vita reale degli uomini di remo molto precarie.

Il cibo

Il cibo, un contratto In effetti il contratto che i pellegrini stipulavano con il comitus prevedeva anche il vitto, ma questo variava a seconda di quanto i viaggiatori erano disposti a spendere, e tutte le «guide di viaggio» raccomandavano di portare a bordo delle provviste in proprio per rinforzare le razioni di bordo. Era normale portare anche qualche animale di piccola taglia che veniva tenuto in una gabbia vicino alla cucina. Le uova e le bottiglie di vino, racconta Fabri, venivano sistemate dai pellegrini nella sabbia che formava la zavorra della galea, sollevando qualche asse del plancito, in modo da tenerle ferme e al fresco. Il vitto per i rematori si rifaceva al capitolo 142 del Consolato del Mare, la raccolta di norme consuetudinarie che rappresentavano il punto di riferimento per tutto il Mediterraneo: i marinai ricevevano per il pranzo mattutino carne per tre giorni alla settimana, minestra negli altri; nel pranzo serale avevano companaggio, ossia formaggio, o cipolle, o sarde secche. Il vino era distribuito sia di mattina sia di sera, senza superare un determinato prezzo. L’alternarsi degli alimenti garantiva un certo equilibrio alla dieta; la presenza di carne tre volte alla settimana (soprattutto montone, a differenza di quanto faranno nei secoli successivi i popoli anglosassoni che preferiranno il bue) poneva questa dieta a un ottimo livello di proteine animali per gli standard del tempo, mentre il forte uso di cipolle nella preparazione della panica, ossia la minestra con il biscotto, apportava una buona dose di antiscorbutici. Il «biscotto» (ossia le gallette) erano distribuite tradizionalmente in razioni da 18 once, ossia poco più di 6 etti. Il problema era che questi valori ufficiali erano in realtà considerati come equivalenti a un pagamento in moneta, e questo permetteva ai patroni di lucrare sulle razioni effettivamente distribuite (per esempio con la scusa che una parte del biscotto era andata polverizzata nel trasporto e quindi non era utilizzabile) rendendo le condizioni di vita reale degli uomini di remo molto precarie. La mesa Era la tavola del patronus della galea, alla quale era invitato lo stato maggiore della nave più i passeggeri che erano disposti a pagare in proporzione al servizio che veniva loro offerto. La lista delle scorte di un mesa del 1414 era lunghissima: vino, malvasia, aceto, grasso fino, olio, formaggio di Puglia e dolce, piselli, fave, ceci, fagioli, sorgo, orzo e farina d’orzo, riso, lasagne, zafferano e spezie varie, uva passa nera, insalata, cipolla e verdure, mandorle, zucchero rosato, miele, pane fresco, biscotto bianco, oltre 9.000 uova, pesce fresco, 400 anguille, pesce salato, qualche centinaia di libbre di carne salata, nove quintali di carne macellata, 13 galline, 7 manzi.

Un racconto

La descrizione di Felix Faber «La galea sulla quale io compii il mio secondo viaggio aveva sessanta banchi e sopra ciascuno di essi tre rematori con i loro remi: e per essere attrezzata come nave da guerra aveva un arciere con il suo arco su ciascun banco insieme ai rematori. Ora tutte le galee delle stesse dimensioni sono così simili da ogni punto di vista che chi passi dalla propria su un’altra potrebbe a fatica accorgersi della differenza, eccetto il fatto che sono diversi gli ufficiali e i membri dell’equipaggio, perché le galee veneziane si assomigliano come gocce d’acqua. … La prima parte della galea, quella anteriore, che è detta prua, è affilata dove incontra il mare, e ha un robusto rostro… Su ciascun lato del rostro ci sono due fori, attraverso cui passa la testa di un uomo, e attraverso cui passano i cavi delle ancore ... la prua ha una sua propria vela, detta dalum, chiamata comunemente trinketum; sotto di questa si trova un piccolo locale dove sono stivati cavi e vele; qui dorme il capitano della prua, che un suo proprio equipaggio che sta li e in nessun altro posto, e fa il lavoro di quella parte della nave; questo è anche il luogo dei poveracci raccattati dagli schiavi [sic!] di prua. Inoltre su tutti e due i lati della prua pendono grandi ancore di ferro che vengono calate in mare nei momenti opportuni. La poppa, che è l’ altra ed estrema propaggine della galea, non è appuntita come la prua e non ha un rostro ma è ampia e curva … ed è molto più alta della prua con sopra una costruzione che essi chiamano il castello. … Il castello ha tre piani: il primo è quello dove si trovano il timoniere e la bussola, e l’uomo che dice al timoniere che cosa segna la bussola, e coloro che osservano le stelle e i venti e indicano la rotta attraverso il mare; il piano intermedio è quello in cui si trova la cabina del Signore e capitano della nave, e dei suoi nobili compagni e commensali; e quello più basso è quello in cui vengono sistemate per la notte le nobili signore, e in cui si trova il tesoro del capitano. Questo locale non riceve luce se non dal boccaporto del ponte di sopra. Da ciascun lato della poppa pendono dei battelli, uno grande e uno piccolo, che vengono calati in acqua nei porti e usati per sbarcare la gente. Sul lato destro c’è una scaletta che si usa per scendere nei battelli in mare o per risalirne. …Sopra la poppa poi è sempre issata la bandiera per indicare da quale direzione stia soffiando il vento. Partendo dal castello di poppa, dopo un intervallo di due banchi, sul lato destro c’è la cucina, che non è protetta da niente: sotto la cucina c’è la cambusa, e accanto si trova il recinto degli animali destinati al macello, in cui stanno tutti insieme pecore, capre, vitelli, oche, mucche e maiali. Più oltre, sullo stesso lato per tutta la lunghezza della nave fino a prua si trovano banchi con i remi. Sul lato di sinistra ci sono banchi di rematori senza interruzioni da poppa a prua, e su ogni banco si trovano tre rematori e un arciere. …Nel centro della nave sta l’albero, alto, grosso e robusto, realizzato con molte travi fissate insieme, che porta il pennone con l’ accaton, o vela principale. In cima all’albero c’è quello che i tedeschi chiamano il “cesto”, gli italiani la “keba”, i latini “carceria”. Sul ponte, vicino all’albero, c’è uno spazio aperto dove ci si riunisce a parlare, come in un mercato; ed è chiamato il mercato della galea. La vela principale è divisa in cinquantatré pezzi di stoffa, ciascuno dei quali misura più di un metro, ma per affrontare i diversi tipi di tempo vengono issati diversi tipi di vela …Tra i banchi c’è uno spazio abbastanza ampio, dove stanno grandi casse piene di mercanzia, e a un livello più alto di queste casse c’è una passerella che corre da prua a poppa, sulla quale gli ufficiali corrono su e giù quando si va a remi. Vicino all’albero maestro c’è il boccaporto principale, attraverso il quale si scende con sette gradini nel locale dove i pellegrini vivono, o dove viene sistemato il carico nelle galee da trasporto. Lungo il lato esterno della galea ci sono i posti per le necessità fisiologiche. L’intera galea, di dentro e di fuori, è coperta della pece più nera, così come cavi, tavole e ogni altra cosa in modo che l’acqua non possa farla marcire facilmente. I cavi per manovrare le vele e le ancore occupano una gran parte della galea, perché sono numerosi, lunghi, grossi e di diversi tipi. È mirabile vedere la moltitudine di cavi e delle loro giunzioni e dei loro intrecci in giro per il vascello. Una galea è come un monastero perché il posto della preghiera è sul ponte di coperta vicino all’albero maestro, dove c’è anche il mercato; la parte di mezzo della poppa corrisponde al refettorio; i banchi dei galeotti e i giacigli dei pellegrini sono il dormitorio; la sala del capitolo è di fronte alla cucina; le prigioni sono sotto il ponte della prua e della poppa; la cambusa, la cucina e la stalla sono tutte a cielo aperto sul ponte di coperta. Così, in poche parole, e tralasciando molti dettagli, hai l’ immagine di una galea» (Da: Evagatorium in Terrae Santae, Arabile et Egypti peregrinationem)

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