Cosa è successo dopo l’urto?
«Abbiamo valutato i danni: l’oggetto ha preso foil, chiglia e timone, il primo si è danneggiato, schiantando le due scasse che lo tengono bloccato e impedendoci così di utilizzarlo per evitare possibili vie d’acqua a bordo. Abbiamo terminato la regata senza foil, una situazione frustrante perché eravamo lenti. Un’andatura che ha giustificato la nostra posizione in classifica».
Esiste un modo per evitare questi oggetti semi sommersi?
«La tecnologia va avanti e oggi sono disponibili telecamere a raggi infrarossi da montare sull’albero capaci di avvistarli, il problema è che vengono rilevati solo quando distano circa 500 metri dalla barca, ma se navighi a 30 nodi e sei sottocoperta a dormire spesso non hai tempo di reagire. Dovrebbero essere collegate al sistema dell’autopilota, in modo da evitarli in automatico, ma non è facile né sicuro a causa dei falsi allarmi che si produrrebbero, situazioni pericolose a quelle velocità. Purtroppo siamo ancora lontani da una soluzione definitiva e gli urti continueranno ad accadere. Quanto successo ad Anthony e me è infatti nulla in confronto a quanto successo ad Alex Thomson e Neal McDonald sul nuovissimo Hugo Boss: anche loro hanno urtato un oggetto con tale violenza, navigavano a 25 nodi, che la chiglia è rimasta connessa alla barca solo tramite un pistone idraulico. Per evitare danni peggiori alla struttura hanno dovuto segarlo e abbandonare la chiglia in fondo all’oceano, con rischi enormi per barca ed equipaggio. Purtroppo sono cose che accadono, è la legge del mare. Le competizioni oceaniche sono grandi avventure più che regate vere e proprie».
Nonostante la delusione per la classifica, quali elementi utili ha portato la scelta di quella rotta?
«Uno dei motivi per cui ho scelto il passaggio a Ovest era proprio la sua difficoltà, avevo bisogno di mettere a dura prova me stesso e la barca. In allenamento non avrei mai potuto posizionarmi nella bocca della depressione, seguire la rotazione dei venti e stressare l’attrezzatura. In ottica Vendée Globe è stato un test importante, propedeutico».
La Transat Jacques Vabre è stata la terza regata con l’Imoca 60, come si svolge la vita a bordo?
«Sono barche bestiali e la vita diventa un vero inferno, non stai mai fermo ed è come essere in una lavatrice. Operazioni normali diventano impossibili: leggere o scrivere un messaggio, ascoltare un vocale è impossibile a causa dei fortissimi rumori che si producono e propagano sottocoperta. Per la psiche è dura, sei sempre a un livello di stanchezza estrema e la privazione del sonno gioca brutti scherzi. Proprio per questo ho preferito capire con un anno di anticipo come migliorare la vita a bordo per dormire e mangiare meglio. Ergonomia dei movimenti, posizioni di stand-by e sonno che non ti facciano spendere troppe energie sono elementi capaci di fare la differenza nelle prestazioni. In quest’ottica torno dalla Transat Jacques Vabre con un lista di lavori e un debriefing lunghissimi. L’obiettivo è adattare la barca al mio corpo e alle mie abitudini».
Qual è il livello delle altre barche?
«La classe Imoca ha un livello pazzesco, ci sono otto barche nuove e tante di quelle precedenti hanno messo foil più grandi, il doppio dei nostri. Gli upgrade sono frequenti. Ad esempio, quando ho partecipato alla prima regata dell’anno, la Bermudes 1000 Race da Douarnenez a Brest, in Francia, avevo la barca da appena due mesi, eravamo circa 18 partecipanti e ho terminato al terzo posto, mi sembrava un grande risultato. Oggi, a qualche mese di distanza da quella regata mi rendo conto di essere più lento a causa dei numerosi upgrade fatti dagli altri negli ultimi mesi. Ci sono barche molto più veloci della mia e le nuove vanno a 5 nodi più di me, mezzo nodo lo recuperi, un nodo magari succede qualcosa e ce la puoi ancora fare, ma con quelle velocità in appena 10 ore ti hanno già lasciato dietro di 50 miglia, la distanza tra Punta Ala e Bastia!».
E dei concorrenti?
«Sono arrivato alla classe Imoca per gradi e la foto dei mio profilo WhatsApp la dice tutta: un disegno di mio figlio su cui è scritto “A scuola!”. Ed è esattamente così, sono ritornato a lezione. La classe è popolata da grandi skipper con 15/20 anni di esperienza negli Imoca, parlo di gente come Yann Eliès, Kevin Escoffier, Jérémy Beyou, tanto per citare il podio della Transat Jacques Vabre. E poi Alex Thomson, Pascal Bidegorry, Vincent Riou, uno che ha fatto quattro volte il Vendée vincendolo nel 2004. Il livello è spaziale.
Come vedi questo primo anno nella classe Imoca?
«Il primo anno bisogna restare con un profilo basso, farti le tue idee e conoscere bene la barca. È indubbio che oggi chi vuole avere successo ha bisogno di uno studio di progettazione che lo segua nelle tante modifiche da fare nel corso della stagione per mantenersi al livello degli altri. Io oggi non ho ancora il budget necessario, ma per ora va bene così, per me è solo l’inizio. Devo però ritarare gli obiettivi, le barche nuove sono esasperatamente più veloci di me e a un certo punto capisci che non puoi fare la loro stessa regata, dopo 24 ore possono essere già avanti a me di 120 miglia».
E i prossimi mesi?
«Ora la barca tornerà in Francia su un cargo, nel frattempo organizzeremo delle riunioni per stabilire compiti e obiettivi dell’anno. Una volta arrivata verrà smontata completamente, spediremo ai rispettivi produttori la maggior parte dei componenti per controlli strutturali. Faremo gli ultrasuoni a tutto lo scafo e alle parti meccaniche, per vedere se hanno fessure dovute a fatica o impatti. La parte di preparazione della barca è importantissima, altrimenti non finisci la regata. E nel Vendée succede spesso di ritirarsi a causa di elementi a cui non hai pensato, o che hai pensato ma non hai visto. Bisogna ridurre al minimo la possibilità che accada. La barca tornerà in mare verso marzo, parteciperò a due traversate atlantiche in solitario tra Francia e USA, la Brest-Charleston e la New York-Les Sables d’Olonne. Dopo altre 8 mila miglia sulle spalle, in estate la barca verrà di nuovo smontata per subire tutti i controlli di routine e poi ci prepareremo alla partenza del Vendée Globe, l’8 novembre 2020 da Les Sables d’Olonne».
Cosa ti aspetti dal tuo primo giro del mondo?
«Parto per finire la regata e cercare di essere all’altezza della barca che mi è stata messa in mano. Per me è importante navigare il più vicino possibile al 100 per cento delle sue polari e cercare di fare rotte e scelte meteo adeguate. Si tratta di oltre 21 mila miglia e come abbiamo visto può succedere di tutto. Su questa base credo che la cosa migliore sia partire con un foglio bianco».