Giovanni Ceccarelli «Foil e dislocamento conviveranno»

Il progettista Giovanni Ceccarelli si racconta la sua visione sul foil e il futuro della Coppa America

«Il foil non è il futuro della vela, è già attualità». Giovanni Ceccarelli chiarisce subito il suo pensiero a riguardo delle “barche volanti”. Il progettista, che tra i molti lavori del suo percorso professionale ha all’attivo due sfide di Coppa America, gli International America’s Cup Class delle sfide italiane Mascalzone Latino e +39 Challenge, nasce in un contesto classico: «sono cresciuto in passione e competenza nello studio di mio padre (Epaminonda Ceccarelli, autore degli ancora amatissimi progetti contrassegnati dalla sigla EC, ndr), leggendo le riviste straniere. Pubblicazioni molto più “tecniche” della maggior parte delle riviste contemporanee, per dire su Bateaux, che amavo, scriveva Daniel Andrieux (progettista, tra gli altri, dell’IACC francese per la Coppa del 2007, ndr)».

Proprio da questo passaggio tra la tradizione e l’attualità parte il pensiero successivo del progettista ravennate riguardo al foiling: «È un oggi che parte da ieri. Le imbarcazioni foil sono già anni che le vediamo. Dagli aliscafi ai Moth, dal kitesurf al windsurf. Quello odierno sulle grandi unità a vela è solo il battesimo mediatico totale. Grazie al Vendée Globe e soprattutto agli AC75 della Coppa America sono entrati nel quotidiano di tutti».

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Che senso ha il foil?

«Minimizzi le resistenze, il che tradotto in pratica significa avere velocità più elevate, impossibili da raggiungere con uno scafo che tocca l’acqua. Ma non solo, ci sono altri vantaggi. In full foiling puoi avere più comfort: senti meno le onde perché lo scafo non deve seguire la superficie del mare, ma rimane sospeso sopra al pelo dell’acqua e quindi se l’altezza del moto ondoso è inferiore all’altezza di volo non si perturba la posizione dello scafo. Inoltre, in motonautica, si possono ottenere consumi inferiori e di conseguenza minori emissioni, nel rispetto dell’ambiente, un motivo trainante del mio approccio progettuale».

Le spine di questa rosa quali sono?

«È un sistema complesso da progettare e costruire. È più impegnativo da mantenere in vita in navigazione: rispetto alle altre appendici immerse come deriva e timone, che sono a sviluppo verticale, “spazzano” più superficie orizzontale di acqua e quindi sono sottoposte a un maggior rischio di colpire un oggetto galleggiante. Il sistema è anche più complesso da utilizzare, in quanto richiede modifiche delle forme delle appendici, per esempio modifica dell’angolo del flap, in fase di decollo e modifiche di assetto, in particolare appruamento, durante la fase di navigazione, al fine di ottimizzare l’angolo di attacco delle ali».

È destinato a rimanere limitato?

«No, di sicuro non sarà tralasciato nei mesi e negli anni a venire, anche in un più vasto scenario della nautica da diporto, sia a vela sia a motore. Legato al foiling ci sono diverse accezioni: il full foiling (moth, kite, AC75 ecc), in cui lo scafo è totalmente sollevato dall’acqua; il semi foiling come negli Imoca60, in cui c’è sempre il contatto di una parte dello scafo con l’acqua; oppure l’utilizzo di foil che non sollevano lo scafo, ma contribuiscono a un parziale sostentamento oltre a dare momento raddrizzante (vedi il DSS, Dynamic Stability System o applicazioni sulle barche a motore come il Princess R35, ndr)».

Opportunità per tutti, quindi?

«Alcune di queste interpretazioni le vedremo in futuro sulle barche a vela e anche sulle barche a motore. È da tempo che sto studiando applicazioni semplificate su alcuni progetti e ho già investito su studi CFD al fine di valutarne le applicazioni per prodotti di serie a vela e a motore. Mi viene da pensare che per il mercato globale sarà prima recepito nelle barche a motore, mono e multiscafo, che nelle imbarcazioni a vela, dove l’utente, per quanto affascinato, è più conservativo. C’è un pubblico “nuovo”, figlio della velocità, che non vuole rimanere imbrigliato nella ricerca di un miglioramento del passato, ma pensa e cerca qualcosa di contemporaneo e di diverso. Diverso comunque per me vuol sempre dire creare qualcosa con solide radici scientifiche e dove ogni segno grafico possa avere una spiegazione e non una interpretazione».

Beh, non succede così certo in Coppa America…

«C’è un fraintendimento di base: la Coppa America è una vela a modo suo. È sbagliata la trasposizione Coppa America e resto della vela. La sfida alla Vecchia Brocca è da sempre la massima espressione tecnologica del momento. I tanto amati e decantati J Class, oggi indicati da alcuni appassionati di questo sport come esempi di come “dovrebbe essere” la vela, rispetto alle barche del tempo (gli Anni ‘30 del XIX secolo, ndr) erano delle astronavi, per dimensione e per materiali impiegati. Come lo sono oggi gli AC75 e come erano 20 anni fa gli IACC».

Quindi comunque una tecnologia che rimane confinata.

«Confinata, ma non troppo. L’ho visto personalmente con il mondo degli IACC che hanno rappresentato per 25 anni il massimo della tecnologia del momento e hanno trasferito tanti elementi nella nautica di tutti i giorni. E non solo alla nautica di alto livello agonistico, ma anche a quella di tutti i giorni, vedi lo sviluppo di vele, alberi e attrezzatura di coperta. A distanza di anni io stesso ancora beneficio di studi legati ai bulbi sviluppati per le barche di Mascalzone Latino e + 39 Challenge».

La progettazione oggi è più sofisticata?

«Se per sofisticata si intende più mediata dai computer sì, ma è solo una questione di potenza di calcolo. Ogni progettista ha giocato con gli strumenti disponibili al suo tempo, massimizzando ciò che aveva a disposizione. Non bisogna dimenticare la cosa fondamentale, però: alla base di ogni progetto ci sono sempre le idee, che sia un AC75 volante o un Imoca, una barca da crociera veloce o una deriva. Perché una barca abbia un senso e si differenzi dalle altre servono le idee, il computer potrà solo raffinarle, ma non le crea».

Quindi oggi ci si può permettere di osare un po' di più in termini progettuali?

«Durante la sfida di +39 Challenge con i software CFD (Computational fluid dynamics), per simulare i comportamenti in acqua, ho disegnato a mano e testato più di 100 scafi e più di 200 bulbi, ma dietro alle analisi c'erano dei ragionamenti umani. Il computer si limitava, allora come oggi, a validare l'oggetto disegnato, senza spiegarti come migliorarlo, il miglioramento era frutto di un'elaborazione mentale. Nello stesso tempo, con i computer e i software attuali avremmo testato dieci volte tanto. Oggi abbiamo la possibilità di raffinare e di migliorare ulteriormente l'idea progettuale, di spingersi verso limiti che sarebbero non solo irraggiungibili, ma neanche pensabili se calcolati manualmente o con macchine meno performanti. Ma torno a ripetere: dipende tutto dall'idea e poi dai tools che hai per svilupparla».

L’aumento di capacità di calcolo porterà alla morte della vela tradizionale? Si andrà solo in foil e niente più barche dislocanti, per dire?

«L’arrivo del nuovo non comporta necessariamente la morte del vecchio. Youtube e il teatro convivono, così come continueranno a convivere foiling e dislocamento: non sparirà nessuno dei due mondi. Gli aliscafi esistevano già 50 anni fa, ma oggi non sono tutti aliscafi. Talvolta, di certo, è distorto il punto di vista, da cui si osserva la realtà. Odio la mistificazione di questi velisti e di queste barche, trasformati dai media in superuomini o superbarche. Sono atleti eccelsi su barche all’avanguardia, ma lo spirito che li muove è lo stesso che muoveva i campioni e i progettisti sin da quando si regata».

Dal tuo punto di vista che vela speri di vedere tra 10 anni?

«Mi auguro che la vela letta torni a essere quella di quando avevo 15 anni: di giovani che ci si approcciano con stupore, provando a capirla, e di passione per l'elemento, la stessa dei grandi navigatori oceanici. Vorrei che si evitasse di far diventare la vela solo virtuale: ci dev'essere in ogni caso il contatto con gli elementi. Per assurdo la F1 può essere virtuale, la vela no. Nell'auto c'è solo la pista, nella vela c'è la natura. Deve continuare a esistere quel rapporto che lega l'uomo all'ambiente circostante. Sentire, o meglio respirare l'aria portata dal vento, sentire la salinità dell'acqua sul viso sono elementi che nessuna simulazione potrà mai ripetere».

Formula 1 e America's Cup, un paragone frequente: è sensato?

«Assolutamente: se mi fossi trovato oggi a capo di un progetto di America's Cup avrei cercato di attingere anche dal mondo della Formula 1 come tecnici, più che dall'aeronautica, come Airbus, soprattutto per quanto riguarda gli studi sui foil, e quindi sulle ali. Ancora di più per tutto quello che riguarda la metodologia di analisi dei dati, che nelle mie sfide era agli albori. Se si guarda ciò che hanno fatto gli sfidanti e la velocità con cui hanno modificato le prestazioni da dicembre fino alla Coppa America si capisce come questo aspetto sia fondamentale per evolvere».

Come si arriva a certi risultati?

«Con gli uomini: è sempre un progetto di un'imbarcazione e quindi è necessario un coordinamento e una presenza di un naval architect con competenze a 360 gradi sulle discipline presenti. Sono necessarie figure specialistiche che sappiano lavorare in team e con una condivisione di dati e di obiettivi. Con ciò si può lavorare oggi anche meglio a distanza durante la fase progettuale. Gli strumenti attuali e l'allenamento sullo smart working ha dimostrato che è possibile».

Una preponderanza della progettazione rispetto alle prove in mare?

«In Coppa devono esserci i velisti che danni dei feedback: sono loro che portano la barca. Ma dovrebbero dire ciò che sentono e ciò che vorrebbero, non condizionare i progetti così come, d’altra parte, il progettista non deve condizionare scelte troppo estreme. Non deve imporre delle scelte funzionali sul Pc, ma difficili da usare in mare. Tornando alla scuffia di American Magic, hanno cambiato i foil prima delle semifinali senza lasciare ai velisti il tempo di provarle: io non avrei preso una decisione del genere anche se il computer mi dava miglioramenti. La barca la portano gli uomini, è come cambiare le ali di una F1 prima delle qualifiche per far girare il pilota con un’ala che non conosce sperando nella pole position: è più probabile che esca di pista!»

Si percepisce un grande amore anche per la Formula 1, da parte tua…

«Sicuro: conclusa la sfida di +39 Challenge, nel 2007, fui contattato per un colloquio per occupare il ruolo di direttore tecnico in team di F1 in UK. Da una parte mi ricordai di ciò che mi diceva mio padre: 'fai quello che sai fare'. Dall'altra parte era in partenza una sfida, abortita quando il litigio tra Larry Ellison ed Ernesto Bertarelli mise fine a tutto dandoci la Coppa vista nel 2010. Non andai in F1 perché volevo restare in America's Cup e continuare a progettare barche a vela e a motore di serie. Non ho comunque rimpianti e continuo a essere un competente appassionato di Formula 1.

Come nasce questa passione per i motori?

«Tante emozioni e tanti ricordi mi legano alla Formula1. Uno tra tutti, quando 17enne potei stare a bordo pista a Maranello a vedere girare Gilles Villeneuve di fianco a un uomo con l'impermeabile, gli occhiali neri e che parlava a bassa voce: Enzo Ferrari. Mio padre fu invitato dall'allora amministratore delegato della Ferrari, che conosceva perché aveva uno Sciuscià, per chiedergli una consulenza riguardo all'uso di materiali compositi per la realizzazione delle carrozzerie. Mio padre come onorario si fece dare la possibilità di stare insieme a me un giorno a Maranello e un giorno a Monza. Tra l'altro quel giorno a Monza fu la domenica in cui Jody Scheckter vinse il Mondiale. Mi trovai nel box chiuso in tutta fretta per impedire ai tifosi di venire a festeggiare dentro. E poi, come romagnolo, ho il motore nel cuore».

Tornando alla vela, come immagini le prossime edizioni di Coppa?

«Mi auguro che tornino a esserci molti più team: 12 potrebbe essere un numero ideale. Si potrebbero avere gironi più lunghi e più regate al giorno. Spero si continui con questa tipologia di barche. Non vorrei che si creasse un formato simile alla motoGP con progetti e barche venduti ai team minori, (idea proposta dagli inglesi e dai neozelandesi, ndr). Spero che si torni a costruire la barca nella nazione di appartenenza della sfida e che ci sia più attenzione alla nazionalità dell’equipaggio e dei tecnici coinvolti: non proprio un totale Made in..., ma tornare un po’ indietro sì».

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