11 August 2015

La nautica in Italia dopo la guerra

La seconda guerra mondiale lascia l’Europa devastata e l’Italia distrutta, ma libera anche molte idee e molte energie nuove, che devono confrontarsi da un lato con il passato che tarda a scomparire e dall’altro con il futuro che avanza, rappresentato dal sogno americano. Una pattuglia di progettisti innovativi si scatena sfruttando anche nuovi materiali come il compensato marino. Nel campo della vela il light displacement diventa sempre più frequente e barche come Mit...

La nautica in italia dopo la guerra

La seconda guerra mondiale lascia l’Europa devastata e l’Italia distrutta, ma libera anche molte idee e molte energie nuove, che devono confrontarsi da un lato con il passato che tarda a scomparire e dall’altro con il futuro che avanza, rappresentato dal sogno americano. Una pattuglia di progettisti innovativi si scatena sfruttando anche nuovi materiali come il compensato marino. Nel campo della vela il light displacement diventa sempre più frequente e barche come Mith of Mahlam, Legend e Zeevalk rivoluzionano il modo di pensare, vedere e costruire gli scafi da regata: anche in Italia questa strada viene ben presto seguita. È però forse tra le derive che arrivano le novità più rivoluzionarie, perché nascono le prime barche veramente plananti, in grado di raggiungere i 14-15 nodi, e si apre la strada verso le derive moderne, veloci e acrobatiche e quindi alla possibilità di correre ‘più veloci del vento’. Nel campo della motonautica in Italia si ricomincia là dove la guerra aveva interrotto: molto agonismo e tanti record battuti, ma scarsa penetrazione presso il grande pubblico. E tuttavia anche in questo campo accade qualcosa di nuovo, destinato a imprimere una svolta epocale alla nautica nostrana: alcuni cantieri, come Riva di Sarnico, si pongono decisamente all’avanguardia interpretando alla perfezione il leit-motiv vincente dei prossimi decenni, ossia la sintesi tra l’innovazione tecnologica e commerciale da una parte e il buon gusto e lo stile italiani dall’altra. La rinascita della vela La sede bombardata dello Yacht Club Italiano a Genova è il simbolo stesso della situazione del movimento velista in Italia. La voglia di ricominciare però c’è e già il 25 ottobre 1945 si tiene a Milano una importantissima riunione durante la quale si pongono le basi della rinascita della nautica italiana. I delegati dei club delle principali zone (mancano solo i napoletani) accolgono la proposta di Beppe Croce di abolire la vecchia Federazione d’anteguerra in modo che ogni singolo club abbia totale libertà. Dopo una lunga discussione viene varato un Comitato Italiano della Vela (C.I.V.) con compiti puramente tecnici e sportivi. Arrivano nuovi materiali Una prima, grossa novità è rappresentata dall’irruzione di nuovi materiali come il compensato marino nella realizzazione di barche di grandi dimensioni. Van de Stadt progetta nel 1949 lo Zeevalk per un industriale che appunto produce compensati e vuole sfruttare le proprietà di questo materiale per un racer spinto. È una barca completamente fuori dagli schemi tradizionali: lunga e stretta, ha uno scafo a spigolo sotto cui è attaccato un fin keel molto largo (un sesto della larghezza totale) con trimmer (altra novità introdotta da Van de Stadt). La rigidità dello scafo è garantita da paratie portanti. In cabina sono previsti 4 (quattro!) posti letto e l’altezza d’uomo c’è solo davanti alla cucina e al tavolo da carteggio. Un ‘Mito’ nella storia della vela Nel campo delle barche RORC la vera, definitiva rivoluzione arriva con il cosiddetto light displacement, ossia con le barche che puntano sulla leggerezzaper poter ridurre la superficie velica e quindi da un lato il rating e dall’altro lo sforzo necessario per condurre la barca, soprattutto con cattivo tempo. La prima barca costruita espressamente secondo questi criteri è il Mith of Malham, nato dalla collaborazione di Laurent Giles e John Illingwort nel 1947. La barca impressiona e scandalizza gli osservatori dell’epoca per il suo aspetto assolutamente non tradizionale per una barca di quasi 12 metri di lunghezza: cavallino rettilineo, poppa quadrata e verticale, dritto di prua rettilineo con un breve raccordo con la chiglia. L’aspetto estetico fa dimenticare la vera novità. Il Mith of Mahlam ha un dislocamento di sole 8 tonnellate, di cui 4 di zavorra per 58 mq di superficie velica. Il piano di coperta è modernissimo: tuga molto bassa, pozzetto sdoppiato, quattro winch per la manovra dei fiocchi, gavoni per le vele sotto i sedili. L’albero ha le volanti e un doppio paterazzo. Le sezioni dello scafo sono tondeggianti e rientranti in coperta; un grande fin keel di forma trapezoidale rappresenta il piano di deriva. Le Olimpiadi della vela Nel 1948 si corrono a Torquay, in Inghilterra, le prime Olimpiadi della vela del dopoguerra, segnate da furiose polemiche per gli ‘scandalosi’ interventi della giuria ai danni di Agostino Straulino e Nico Rode, che perdono la medaglia d’oro all’ultima regata, finendo quinti. I 24´ light displacement per tutti Laurent Giles nel 1949 progetta per la Rnsa (Royal Navy Sailing Association) uno yacht al limite inferiore ammesso dal Rorc, ossia 24 piedi al galleggiamento (7,32 metri), in grado di regatare come monotipo. Ne nasce una barca lontana dall’estetica tradizionale, col timone appeso a uno specchio di poppa largo e piatto, la tuga a due altezze e con l’albero appoggiato alla chiglia. L’idea si diffonde presto anche in Italia, smentendo quindi quanti sostengono la tesi della ‘provincialità italiana’: già nel 1950 Sangermani costruisce un 24 piedi Rnsa, il Chiar di luna. Le derive In Italia la vela è praticata nei primissimi anni del dopoguerra soprattutto con le derive, il cui sviluppo però è condizionato dalla convinzione che le barche piccole debbano adattarsi alle condizioni meteo della zona in cui vengono usate. Risulta perciò impossibile progettare una barca ‘nazionale’. Inoltre sono barche che impongono una costruzione raffinata e costosa, sono survelate (24-25 mq) ma senza trapezio (e perciò scuffiano spesso). Dal momento che la deriva è in ferro e pesa 60 kg, la riserva di spinta è minima. Una falsa partenza Nel 1948 fa la sua comparsa in Italia il Lighting, una prova nel campo delle derive dei famosi Sparkman & Stephen. Lungo 5,8 m, largo 1,92, con 16,46 mq di superficie velica colpisce subito per la stabilità e la solidità, nonché per la velocità… in realtà l’interesse suscitato in Italia è legato al dibattito in corso sulle derive a spigolo, ritenute le uniche in grado di far abbassare i prezzi e quindi avvicinare il grande pubblico. Nel merito, il giudizio di Vela e Motore è tranchant: «nulla di straordinariamente notevole: non dovrebbe essere difficile fare di meglio». Le vere novità Nel 1947 Uffa Fox, già noto nell’ambiente velistico inglese, progetta il Flying Fifteen, la prima imbarcazione realmente planante. Fox (1898-1972) è nato a Cowes e da giovane ha lavorato con Saunders alla costruzione di motoscafi veloci, come il Maple Leaf IV. Verso la fine degli anni Venti, dopo aver già iniziato a costruire e progettare imbarcazioni, si convince che una piccola imbarcazione ben progettata e ben portata può entrare in regime di planata, e progetta l’Avanger (1928). Come amava ricordare Fox, una sera mentre è nella vasca da bagno ha la visione di una piccola barca ‘che marcia in tutta la sua gloria spinta da un forte vento in poppa’. Si precipita al tavolo da disegno e di getto butta giù le linee rivoluzionarie di questa barca per due persone d’ equipaggio lunga poco più di sei metri fuori tutto, larga uno e mezzo circa, con 13,95 mq di superficie velica e una deriva fissa profonda 66 cm. Anche senza trapezio, le prestazioni sono eccezionali: Fox tocca subito punte di 14-15 nodi. E per i più giovani? I bambini e i ragazzi di Clearwater, una cittadina della Florida, avevano l’ abitudine di gareggiare giù dalle colline vicine alla città su rudimentali automobili realizzate a partire dalle grosse casse di legno usate per le saponette. Nel 1948 queste gare vengono vietate e la locale sezione di Optimist International (un’organizzazione internazionale a favore della gioventù), che le organizzava, chiede al noto progettista Clark Mills, guarda caso nativo di Clearwater, di progettare una piccola imbarcazione per continuare a gareggiare, questa volta sull’acqua. La barca doveva essere leggera, sicura e facile da condurre e non costare più di 50 dollari. Mills, che a sua volta da giovane aveva gareggiato sulle stesse automobili, si ispira alle casse di saponette. I primi schizzi sono di una barca con una prua tradizionale, ma in questa versione costerebbe più dei cinquanta dollari richiesti. Alla fine Mills progetta una barca quadrata, lunga 8 piedi e larga 4, che può essere costruita in casa con pochi fogli di compensato, un po’ di viti e del silicone per sigillare gli spigoli. La chiama Optimist Pram in onore dell’associazione da cui era venuto il primo impulso. Il primo Optimist è varato nel 1948 e ben presto la barca conosce un notevole successo a livello locale. Il salto di qualità si ha nel 1954, quando il danese Axel Damgaard, vede queste barche e tornato in Europa, se ne fa promotore. La motonautica A livello europeo e mondiale piloti italiani come Achille Castoldi, Mario Verga ed Ezio Selva dominano le corse di questi anni, ma si tratta di competizioni che non restituiscono la vera gerarchia dei valori, perché non comprendono gli americani (che corrono con regole diverse). Nelle categorie fuoribordo (250, 500 e 1000 cc) vengono istituiti solo Campionati Europei (il primo Mondiale fuoribordo viene corso nel 1962 a titolo sperimentale), nei quali inizialmente si impongono piloti come Paolo Mora, Carlo Pagliani e Giuseppe Guerini ma compaiono anche nomi stranieri come lo svizzero Paul Schiller e il tedesco Dieter Koenig. Tra i motori prevalgono ancora gli spagnoli Soriano e gli italiani della B.P.M. di Milano. In America nello stesso periodo esistono oltre 4.000 piloti da corsa (in Italia ce ne sono meno di duecento). Accanto alla classica per eccellenza, la Gold Cup, si corrono molte gare in grado di richiamare un grande pubblico: l’apertura di stagione a Miami, la National Sweepstake Regatta a Red Bank nel New Jersey, il trofeo Henry Ford e la Silver Cup a Detroit, la President’s Cup a Washington. Continua naturalmente anche la corsa ai record di velocità assoluta: il 26 giugno 1950 il motoscafo a tre punti Slo-mo-shun di Stanley Sayres tocca i 257,98 km/h. I motori BPM Botta e Puricelli già agli inizi degli anni Trenta hanno fondato a Milano l’ unica azienda italiana specializzata esclusivamente nella produzione di motori marini. Alla fine degli anni Quaranta lo stabilimento di via Palladio 18 produce tredici modelli di motori a benzina, tutti a 4 cilindri, ricavati da quattro cilindrate base: 1.500, 1.800, 2.600 e 3.000 cc. I modelli usati nelle competizioni sono il 1500 SS, che eroga 90 cv a 6.000 giri, e soprattutto il 2600 SS che raggiunge i 150 cv a 5.000 giri. I prezzi spaziano tra le 585.000 lire del 25 cv, il modello più piccolo, fino a 1.150.000 lire del 2600 SS da competizione. I motori BPM sono adottati da campioni come Morani, Venturi, Valtolina, Zerboni, Verga, Selva e molti altri, e vengono esportati in Spagna, Svizzera, Argentina, Uruguay, Francia ed Egitto (uno dei clienti infatti è re Faruk). I piccoli fuoribordoI nuovi motonauti sono interessanti anche a motori fuoribordo piccoli ed efficaci. In Italia c’è il Girino, progettato dall’ingegnere G.F. Azzara e costruito dalla Motormeccanica Cristiani di Pavia. È un motore a due tempi di piccola cilindrata (61,7 cc), leggero (16 kg) capace di erogare 3 cv di potenza ma con notevole continuità e senza il rischio di danni grazie al particolare disegno del gruppo cilindro-pistone: la testa del pistone soprattutto ha una configurazione tale da favorire il lavaggio e ridurre la perdita di gas freschi. Il motore viene perfezionato con gli anni cercando di migliorare l’ impermeabilità della calotta e semplificando al massimo i comandi. Tra l’altro viene fornito di una presa per erogare corrente elettrica all’imbarcazione. I motori da corsa Nell’immediato dopoguerra il mercato dei motori entrobordo è quasi fermo: secondo stime ufficiose assorbe circa cento pezzi all’anno. I campioni usano di solito motori automobilistici marinizzati come il Maserati, il Ferrari (un unico esemplare) e l’Alfa Romeo 129, lo stesso usato da Fangio e Farina. Gli anglosassoni preferiscono invece montare motori di derivazione aeronautica, come l’Allison V 12 o, in area britannica, il Rolls-Royce della Merlin e poi della Griffon. Solo Castoldi segue questa tendenza usa per il suo Sant’Ambrogio un motore avio dell’Alfa Romeo (costruito su licenza dalla Dailmer Benz) da 1400 cv. L’unico vero motore marino, e non solo, marinizzato è il Bpm, protagonista di centinaia di vittorie. I piloti usano quasi tutti motori degli anni Trenta, che grazie a un’attenta manutenzione continuano a funzionare e in qualche caso addirittura a sviluppare qualche cavallo in più di quelli teorici. Il problema principale è la difficoltà di procurarsi i pezzi di ricambio, soprattutto per le marche americane, che obbliga spesso meccanici e piloti a costruire ex novo i pezzi. Il calo della percentuale dei piloti arrivati al termine delle gare (dall’80% nel 1947 al 72% nel 1949), si spiega anche col fatto che i motori sono stati “tirati” al massimo. I Cantieri Riva L’azienda di Sarnico ha ormai una solida tradizione alle spalle, legata però soprattutto ai piccoli e leggeri racers come il mitico Brunella. Carlo Riva, il giovane erede della casata, si convince che il futuro sta nella produzione in serie di motoscafi da turismo e si prepara a trasformare la produzione del cantiere di famiglia. La celebre ‘poppa Riva’ di linea tondeggiante e inclinata verso prua compare per la prima volta su Loredana II, un motoscafo costruito nell’agosto del 1946 per Ezio Tacchini. Lo scafo, prototipo dell’Ariston, è lungo 6,50 metri e monta un piede poppiero con eliche controrotanti Cabi-Cattaneo, usato per la prima volta dai Mas durante la seconda guerra Mondiale. Questa soluzione verrà poi abbandonata, ma la svolta è alle porte.

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