I documenti e le testimonianze che raccontano il lato oscuro della vita a bordo
delle navi della Marina militare britannica ai tempi di Nelson: non solo
avventura e gloria, ma fatica e punizioni anche immeritate.
Marinaio e guerriero: quale binomio racchiude maggior fascino e senso dell’
avventura? La vita in mare, anche in tempi lontani, era un modo affascinante
per sbarcare il lunario e insieme coprirsi di gloria sulle navi di Sua Maestà
britannica.
Se que...
Introduzione
I documenti e le testimonianze che raccontano il lato oscuro della vita a bordo
delle navi della Marina militare britannica ai tempi di Nelson: non solo
avventura e gloria, ma fatica e punizioni anche immeritate.
Marinaio e guerriero: quale binomio racchiude maggior fascino e senso dell’
avventura? La vita in mare, anche in tempi lontani, era un modo affascinante
per sbarcare il lunario e insieme coprirsi di gloria sulle navi di Sua Maestà
britannica.
Se questo con una certa frequenza era vero per ufficiali e sottufficiali, la
musica era molto diversa per i ranghi più bassi, ossia per chi viveva sotto,
anziché sopra, il ponte di comando. I marinai semplici che all’epoca dell’
ammiraglio Nelson e delle grandi gesta della Royal Navy servivano a migliaia
sulle navi britanniche, avevano una vita fatta di ombre più che di luci.
In primo luogo i marinai vivevano a bordo delle navi in condizioni molto
precarie, in spazi sovraffollati senza il rispetto di quelle che per noi oggi
sono le più elementari norme igieniche. Il loro lavoro si svolgeva in
condizioni durissime e richiedeva molte volte il sacrificio della vita sia
durante le battaglie sia durante le ordinarie manovre della quotidiana vita di
bordo.
Gli ufficiali e i sottufficiali sotto cui servivano avevano per loro, tra l’
altro, una scarsissima considerazione: li ritenevano canaglie scansafatiche,
pronti solo ad ubriacarsi, attaccare briga e disertare.
Eppure è stata proprio questa presunta marmaglia ad assicurare alla marina
britannica la vittoria su Buonaparte e a conquistare il predominio sul mare.
C’è da stupirsi che quando le navi inglesi scoprirono i paradisi del Pacifico
meridionale gli uomini a bordo cominciarono a sognare la fuga?
Le press-gang
Le press-gang
A discolpa di quella che gli ufficiali ritenevano la ‘ciurma’ ci sono tuttavia
molte attenuanti.
Innanzitutto era ben difficile che questi uomini si imbarcassero sulle navi
militari di loro volontà. Sono un fatto documentato storicamente che l’
equipaggio venisse reclutato in buona parte in modo forzato, sia in mare sia in
porto. I comandanti scendevano a terra con alcune scialuppe complete di
equipaggio armato per catturare e arruolare il numero sufficiente di uomini che
servivano per completare gli effettivi.
Anche nel caso in cui un marinaio decidesse di imbarcarsi di sua spontanea
volontà, da quel momento poteva dire addio alla sua libertà.
Come racconta William Robinson, un ex marinaio che servì sulle navi di Nelson e
che raccontò diffusamente la sua esperienza in un libello di denuncia
pubblicato nel 1836, quando un giovane si affidava a una nave-caserma della
marina militare per trovarvi rifugio e ospitalità la sua libertà si limitava a
quella di pensiero, a patto di stare bene attento a confinare i propri pensieri
‘in una delle stive della sua mente senza manifestarli mai a voce alta
facendoli sfuggire dal boccaporto’. Di solito chi saliva su una di queste navi
si pentiva del passo compiuto nel giro di pochissime ore.
Dopo essere stati visitati dal dottore di bordo ed essere stati dichiarati
idonei alla navigazione, i marinai venivano rinchiusi nella stiva insieme ai
compagni di sventura e a una nutrita frotta di topi. I coscritti trascorrevano
giornate e notti ammassati gli uni sugli altri ‘poiché non c’era abbastanza
spazio per sedersi o stare in piedi’.
Nel giro di pochissimi giorni gli uomini si ritrovavano com’era prevedibile in
condizioni pietose, coperti di sporcizia e infestati dai parassiti. A un certo
punto la nave-caserma raggiungeva le navi a cui ciascuna delle reclute era
destinata. Lì ciascuno riceveva vestiti e coperte, il prezzo dei quali sarebbe
stato detratto dalla paga da parte del commissario di bordo.
Naturalmente questi effetti personali venivano rubati in modo sistematico nel
giro di pochissime ore: «alcuni di noi persero le scarpe in pieno giorno, ad
altri fu rubata la coperta, mentre nottetempo dormivamo sul ponte.
Questi oggetti sparivano, anzi si volatilizzavano come per magia. Scoprii in
seguito che i nostri averi ci erano stati sottratti con ami da pesca e filo
armeggiati con grande destrezza e profittando del buio che avvolgeva i ponti
della nave, rendendo impossibile smascherare i ladri».
La fustigazione
La fustigazione
Un’altra componente abituale che scandiva le giornate dei marinai in
navigazione era la somministrazione delle punizioni. Si trattava di un rito
quotidiano.
In momenti fissi della giornata il nostromo e il suo aiutante chiamavano a
raccolta gli uomini, una moltitudine che spesso sui vascelli di prima classe
(65 metri di lunghezza circa) arrivava anche a 800-1.000 persone
I marinai i cui nomi erano scritti nella lista nera venivano condotti sul ponte
e il capitano ordinava all’accusato di spogliarsi. Il prigioniero veniva legato
a una grata o a una scala per i polsi e le ginocchia, quindi veniva proclamata
la sua colpa. Il condannato a questo punto aveva facoltà di fare una
dichiarazione.
Come sottolinea Robinson, in diciannove casi su venti si veniva frustati anche
per l’offesa più trascurabile o per la colpa più lieve, ad esempio non aver
risposto all’appello per montare di guardia di notte o per non aver svolto
accuratamente il proprio compito sul ponte o a riva pur avendo fatto del
proprio meglio.
Il secondo nostromo riceveva allora l’ordine di colpire il malcapitato con il
gatto a nove code. Dopo sei o dodici frustrate la frusta passava a un altro
secondo nostromo che continuava la punizione e si proseguiva così fin quando il
capitano non ordinava di smettere.
Il colpevole riceveva così da una a cinque dozzine di frustate a seconda dei
desideri del capitano; in genere ci si fermava a tre dozzine. Il capitano aveva
il potere di assegnare questa punizione anche ogni giorno, nel caso provasse
antipatia per un marinaio. E se era un tiranno poteva comandare al secondo
nostromo di frustrare con più forza, altrimenti avrebbe subìto la stessa
punizione.
Il castigo veniva deciso senza alcun processo, ma a semplice discrezione del
comandante.
Il gatto a nove code
Ecco un esemplare piuttosto elaborato di gatto a nove code (le cordicelle con
cui termina sono ben più di nove) arrivato fino a noi.
L’attrezzo principe delle punizioni a bordo delle navi inglesi era il
cosiddetto “gatto a nove code” (in inglese “cat o’ nine tails”, detto anche
“captain’s daughter”, letteralmente “la figlia del capitano”). Era una specie
di frusta realizzata partendo da un cavo qualunque dal diametro di circa un
pollice di diametro (25 mm) che veniva aperto nei suoi tre trefoli maggiori,
ciascuno dei quali veniva a sua volta aperto nei tre trefoli minori, creando
così i nove flagelli terminali, ciascuno dei quali aveva un diametro di circa 6
mm.
La spiegazione del nome che ogni tanto si incontra, secondo la quale il numero
nove rappresenterebbe simbolicamente tre Trinità che puniscono il malfattore, è
certamente posteriore. I primi 60 centimetri del cavo venivano lasciati uniti
e, avvolti in stoffa rossa, formavano il “manico”, mentre i nove cavi più
sottili erano lunghi circa altrettanto. Il peso complessivo era di circa 370
grammi: veniva realizzato un nuovo “gatto” per ogni fustigazione (ai tempi di
Trafalgar spesso a opera dello stesso marinaio che doveva subire la punizione),
che poi veniva tenuto in un sacco rosso fino al momento di usarlo.
Spesso venivano fatti dei nodi alle estremità dei cavi sottili o addirittura
venivano aggiunte delle sfere metalliche per rendere la tortura più dolorosa.
Le altre punizioni
Le altre punizioni
La fustigazione era la punizione più frequente e più tradizionale, ma non era
certo l’unica.
Le altre potevano essere ancora più crudeli e spesso culminavano con la morte
del condannato. Ad esempio un marinaio poteva essere frustato senza preavviso
mentre si trovava al lavoro sul ponte a discrezione dell’ufficiale di turno: il
secondo nostromo era tenuto a girare portando sempre la sferza in tasca per
essere pronto in qualsiasi momento a colpire il malcapitato. Siccome il
condannato non veniva legato, questi cercava di schivare i colpi il più
possibile ma in questo modo la sferza lo colpiva al viso o alla testa.
Questa punizione era così frequente da non essere neppure annotata sul giornale
di bordo. Un’altra punizione inflitta comunemente, in genere nel caso in cui un
marinaio avesse osato rispondere in modo offensivo a un superiore, era il
cosiddetto ‘imbavagliamento’: il colpevole veniva fatto sedere con le braccia
legate dietro la schiena e le gambe bloccate dai ceppi; era poi costretto a
spalancare la bocca e a tenere tra i denti una spranga di ferro legata dietro
la sua testa rimanendo in questa posizione fin quando il comandante non
decideva di farlo liberare o finché il poveretto non crollava.
Quando un marinaio veniva scoperto a rubare, veniva sottoposto alla pena ‘delle
bacchette’. Il colpevole, dopo aver ricevuto una dozzina di frustate, veniva
fatto sedere a torso nudo con i polsi legati a una sedia fissata all’interno di
una grande tinozza, che veniva portata in giro per i ponti della nave passando
tra gli uomini dell’equipaggio schierati in due file. Ogni uomo era munito di
una specie di frusta a tre filacce, cioè un cavo con tre gherlini strettamente
annodati e intrecciati, con la quale doveva colpire il suo compagno, a pena di
essere a sua volta accusato di furto.
Alla fine il prigioniero veniva frustato un’altra volta. Calcolando il numero
di uomini a bordo di una nave di linea, chi subiva questa punizione riceveva
quattro dozzine di frustate con il gatto a nove code da parte del nostromo e
dei suoi aiutanti e altri circa seicento colpi da parte del resto dell’
equipaggio.
Una testimonianza fuori dal coro
Mentre ci trovavamo a Spithead nell’anno 1809 o 1810 quattro marinai che erano
stati costretti ad arruolarsi tentarono di fuggire da una fregata che in quel
momento si trovava alla fonda. Uno dei loro compagni, un olandese al quale
avevano confidato le loro intenzioni, li tradì informando gli ufficiali. I
quattro furono processati da una corte marziale che decise di punirli con
trecento frustate “passando per l’armata”. Una volta concluso il processo, non
appena il vento si placò a sufficienza, a ogni nave venne richiesta una barca
con un plotone di marines, affinchè si potesse eseguire la punizione. Il
condannato viene imbarcato su una lancia, cioè la più grande delle scialuppe in
dotazione, accompagnato da un aiutante e da un medico.
Sulla lancia viene installata un’aspa di argano fissata a poppa e a prora, alla
quale il poveretto viene legato per i polsi e, per timore di fargli del male
(ma che umanità!), su ognuno si usa arrotolare un calzino per evitare che, nell’
agonia, la sua pelle si laceri. Quando tutto è pronto, il colpevole viene
spogliato e legato all’aspa.
La punizione inizia con l’ufficiale che, dopo aver letto la sentenza della
corte marziale, ordina ai secondi nostromi di fare il loro dovere. Il dorso
nudo del condannato viene così percosso con il gatto a nove code e ogni sei
frustate si chiama un altro secondo nostromo a prendere il posto di quello
precedente, finché il prigioniero non abbia ricevuto almeno venticinque colpi.
A questo punto si libera il condannato al quale è consentito di sedersi e di
avvolgersi in una coperta, per poi essere condotto alla nave successiva della
flotta, scortato da un vasto numero di barche armate, accompagnato dalla
dolente musica della Rogues’ march ‘ [ossia la “Marcia dei disonore”, che
veniva suonata dalla banda per congedare con disonore i soldati che si erano
sottratti ai propri doveri, lasciando il campo di battaglia prima della fine
dello scontro (N.d.T.)]. Il colpevole viene così portato da una nave all’altra
e ogni volta riceve altrettante frustate fino a quando la condanna non risulta
scontata per intero.Spesso, anzi quasi sempre, accade che chi viene sottoposto
a questa tortura non regga o svenga, sebbene ci si adoperi in ogni modo per
farlo resistere facendogli bere del vino...».
(da: William Robinson, Trenta Frustate per Jack Nastyface, Effemme Edizioni)
William Robinson era il figlio di un calzolaio e si arruolò giovanissimo nella
Marina britannica, pentendosi immediatamente della scelta. Partecipò alla
battaglia di Trafalgar e in seguito probabilmente disertò.
Nel 1832 pubblicò le sue memorie, “Trenta frustate per Jack Nastyface”,
tradotto per la prima volta in italiano dalla casa editrice milanese Effemme,
(pag 132, euro 15,00).
Per informazioni www.effemme-edizioni.it
Per quanto incredibile possa sembrare, ancora alla fine dell’Ottocento c’era
chi teorizzava la necessità di mantenere le frustate come punizione corporale
per mantenere la disciplina, come dimostra questo libello pubblicato negli
Stati Uniti da un anonimo ufficiale.
Ribellioni?
I marinai non si ribellavano?
Il 15 aprile 1797 gli uomini della flotta inglese all’ancora a Spithead
presentarono una petizione per chiedere un miglioramento della paga (un
marinaio comune di 1a classe riceveva 24 scellini per mese lunare, una paga che
era rimasta invariata nei precedenti 144 anni) e delle condizioni di vita (un
aumento delle razioni, la disponibilità di carne e verdure fresche nei porti,
permessi per scendere a terra in Inghilterra per far visita alle famiglie). Le
richieste non sembravano irragionevoli, ma il problema erano le circostanze di
guerra in cui venivano avanzate.
Lo stesso 15 aprile Lord Bridport, comandante in capo della flotta della
Manica, ordinò alle navi di uscire in mare, in risposta a una sortita della
flotta francese, ma i marinai a bordo dell’ammiraglia Queen Charlotte si
rifiutarono di salpare l’ancora. Questo fu il segnale per il resto della flotta
e ben presto anche sulle altre 19 navi di linea gli equipaggi incrociarono le
braccia.
La flotta della Manica, la principale difesa dell’Inghilterra contro un’
invasione francese, era immobilizzata dagli ammutinati.
Per altre tre settimane nessuna risposta ufficiale arrivò loro da Londra poi,
il 7 maggio, giunse sulle navi la voce che era stata accolta la maggior parte
delle richieste, tra cui un modesto aumento della paga. Le richieste di carne
fresca e verdure erano state invece ignorate, e ciò portò a una recrudescenza
dell’ammutinamento sulla London. Gli ufficiali ordinarono ai marines di aprire
il fuoco contro gli ammutinati, che però sopraffecero i marines e quindi
chiusero a chiave soldati e ufficiali sotto coperta.
A differenza del semplice rifiuto di obbedire agli ordini delle precedenti
settimane, questo fu un atto di vera e propria insubordinazione. Di fronte alla
minaccia che l’ammutinamento si allargasse a tutta la flotta l’Ammiragliato
cedette e inviò lord Howe a Spithead per negoziare la fine della crisi: l’
ammutinamento finì, col perdono dei marinai che ne erano stati gli istigatori.
Il 16 maggio la flotta della Manica salpò finalmente le ancore.
Il 20 maggio però scoppiò un secondo ammutinamento nella flotta del mare del
Nord, di base al Nore, vicino a Yarmouth subito fuori dell’estuario del Tamigi.
A differenza dei marinai di Spithead, quelli del Nore si spinsero oltre
chiedendo paghe eque e migliori condizioni.
Le loro richieste furono però considerate eccessive e perciò respinte, e si
sospettò perfino che dietro l’ammutinamento ci fossero simpatizzanti per la
rivoluzione francese. L’Ammiragliato mandò navi i cui equipaggi erano rimasti
fedeli, mentre l’esercito schierava batterie di cannoni per battere le navi all’
ancora.
Gli ammutinati allora si arresero e questa volta i capi, tra cui Richard
Parker, furono impiccati.
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