07 April 2009

La Storia di Vela e Motore

“Passano gli anni, ma ottanta son lunghi / però quel ragazzo ne ha fatta di strada…“ Questi due versi di una celebre canzone di Adriano Celentano potrebbero riassumere splendidamente la storia e la vita della nostra rivista. Vela e Motore infatti nasce nel luglio del 1923 come bollettino dello Yacht Club Adriaco di Trieste. La città giuliana, italiana solo da pochi anni, possedeva già dal 1903 uno yacht club forte e vitale, l’Adriaco appunto, che da tempo si propon...

Nascita di una rivista

“Passano gli anni, ma ottanta son lunghi / però quel ragazzo ne ha fatta di strada…“ Questi due versi di una celebre canzone di Adriano Celentano potrebbero riassumere splendidamente la storia e la vita della nostra rivista. Vela e Motore infatti nasce nel luglio del 1923 come bollettino dello Yacht Club Adriaco di Trieste. La città giuliana, italiana solo da pochi anni, possedeva già dal 1903 uno yacht club forte e vitale, l’Adriaco appunto, che da tempo si proponeva come uno dei centri di aggregazione del movimento nautico (soprattutto velico, ma non solo) italiano. Ad avere l’idea di fondare una rivista per tenere aggiornati non solo i soci del club ma anche tutti gli sportivi delle attività che si svolgono in Adriatico sono un impiegato di una compagnia di assicurazioni, Carlo Strena, e un giovane avvocato, Bruno Pangrazi. Entrambi sono attivi e abili velisti: Pangrazi in particolare è famoso per la sua lunga serie di imbarcazioni, tutte battezzate col nome di Falena, con cui gareggiava nel golfo di Trieste. Il titolo del bollettino che finalmente vede la luce è “La vela e il motore”, anche se all’epoca di motori in mare non se ne vedevano molti! Le prime copertine vengono disegnate dall’ingegner Artù Chioggiato di Venezia, un altro nome importante nella storia del vela da diporto italiana di quegli anni. La rivista viene stampata a Milano. Gli inizi sono avventurosi: Strena e Pangrazi devono fare un po’ tutto e inventarsi cronisti, fotografi, redattori, correttori di bozze e impaginatori. Tuttavia il loro lavoro piace e la rivista nel giro di un anno diventa l’organo ufficiale anche dei circoli velici del golfo di Napoli dove, come nel mar Ligure, si stava sviluppando una vera tradizione nautica e diportistica. Nel 1925, quindi ad appena due anni dalla sua nascita, si fa promotrice della Federazione Adriatica dello Yachting, uno degli embrioni da cui sarebbe poi nata la Federazione nazionale.

I Primi anni

In questi primi anni le pagine della rivista parlano soprattutto di vela dal momento che i motoscafi sono ancora pochissimi. Quella vela vive due dimensioni parallele, che si riflettono fedelmente negli articoli del nostro mensile: c’è la vela nobile ed elitaria delle classi di Stazza Internazionale e quella più «popolare» delle piccole derive. I 6 e gli 8 metri S.I. formano un piccolo mondo chiuso su stesso che gravita sul mar Ligure con pochi rappresentanti nell’ Alto Adriatico e nel Golfo di Napoli: le competizioni più importanti infatti si svolgono a Genova oppure a San Remo o al massimo nel Tigullio. Ancora nel 1936 sono registrati in Italia diciotto 8 metri S.I., di cui solo quattro o cinque attivi sui campi di regata internazionale, e cinquantasei 6 metri S.I. e ci sono regate con appena tre o quattro barche. In compenso si tratta di regate spettacolari, perché i percorsi sono sempre brevi e sotto costa in modo che il pubblico possa seguire dalla riva i momenti della gara. Gli 8 m S.I. disputano la Coppa d’Italia (trofeo istituito nel 1903 da Vittorio Emanuele III) su un percorso di appena quattro miglia che va ripetuto quattro volte. Lo spirito agonistico e l’aggiornamento dei materiali è comunque piuttosto spinto, perché si riconosce che una barca vecchia di tre anni non ha nessuna possibilità di vincere contro le nuove. Tuttavia a fianco della vela «nobile» esiste anche la vela «popolare» (nel senso migliore del termine) e La vela e il motore non la dimentica certo, cercando anzi sempre di spingere verso la diffusione della passione per il mare: per esempio nel 1927 appaiono i piani del monotipo Cusio, una piccola deriva a vela di 4 metri fuori tutto e 8,66 m2 di superficie velica, sorprendentemente moderna nelle sue forme piatte e a spigolo. A Milano nel 1929 nasce La Motonautica, che si dedica con maggiore attenzione al mondo del motore. L’editore, Gino Magnani, e la coppia Strena-Pangrazi, i due factotum della rivista triestina, riescono ad accordarsi nel 1930 per una fusione delle due testate: nasce così Vela e Motore – Motonautica, pubblicata da «L’Editrice» di Milano. Negli anni Trenta la motonautica è seguitissima e suscita un grande interesse di pubblico rispetto alla vela, sia per l’appoggio dei reali, sia perché il governo ritiene la vela vicina al mondo anglosassone. Ma nonostante la passione e l’impatto che le imprese motoristiche, in tutti i campi, hanno sulla stampa e sull’opinione pubblica, i motoscafi sono ancora molto rari, nel 1936 ne sono registrati poco più di mille. L’Italia non è un paese industriale e se un abile artigiano, come Costaguta o Sangermani, può praticamente da solo costruire scafi stupendi per un pubblico ristrettissimo, non esistono aziende moderne in grado di produrre a bassi costi e su ampia scala i motori necessari. Oltre a questi limiti strutturali si aggiungono anche ostacoli che la rivista denuncia a più riprese: manca per esempio, come scrive Roberto degli Uberti, «una chiara, semplice e poco vessatoria legislazione che agevoli, invece di ostacolare, chi costruisce e vende questi natanti e chi per necessità o per diletto li possiede o vuole acquistarli». Siamo nel 1930 e certe frasi potrebbero essere trascritte tali e quali, se non adesso pochi anni fa. Un altro freno alla diffusione della motonautica è (udite, udite!) la pressione fiscale, e anche su questo punto Vela e Motore già da quegli anni si batteva contro l’interpretazione troppo cavillosa delle leggi esistenti. Un solo esempio, tratto dagli articoli di quegli anni: nel 1921 era stato emanato un decreto legge che metteva sullo stesso piano biciclette a motore e motori fuoribordo sotto i 6 cavalli, concedendo a entrambi di circolare senza immatricolazione né patente. Una specie di deregulation ante litteram, se non fosse che all’epoca “non si conoscevano in Italia che due o tre motorini esteri adattabili a biciclette e un solo fuoribordo americano” (come nota la nostra rivista). Poi cosa succede?

Il pianeta America

Gli anni del conflitto obbligano, in assenza o quasi di eventi sportivi o di crociere, a discutere astrattamente sul futuro della nautica: Vela e Motore contribuisce a eliminare le cosiddette «classi nazionali», un esperimento degli anni Trenta fallito per la scarsa diffusione di questo tipo di imbarcazioni a vela. Dopo il ’45 parte la ricostruzione e anche Vela e Motore riprende le pubblicazioni, nell’agosto di quell’anno, dopo varie traversie legate al conflitto che avevano portato a sospendere per qualche mese la rivista: è l’ unica pausa della sua storia. L’aria di novità che si respira da subito è dovuta alla scoperta del pianeta America, con una nautica sbalorditiva per l’ italiano del 1945: per esempio, per gli americani già allora è normale cercare la barca su cataloghi che permettono di scegliere tra centinaia di modelli nuovi e tra migliaia di imbarcazioni usate (già nel 1940 una ditta di Filadelfia aveva in catalogo 5.000 imbarcazioni in vendita, tutte corredate di fotografia). Sconvolgenti per noi i prezzi: con 65 dollari è già possibile acquistare un piccolo motoscafo con motore fuoribordo. La spiegazione di tutto ciò è la standardizzazione delle barche e degli interni, lontanissima dalla mentalità e dalla pratica dei cantieri italiani che tendono a creare la barca su misura per il cliente. In Italia prima di ogni altra cosa si discute di politica, ovvero, del destino della Regia Federazione Italiana della Vela. Si scontrano due linee: la prima è impersonata dallo Y.C.I. e dal suo segretario Beppe Croce che propone lo smantellamento totale della vecchia struttura federale. L’altra tendenza, più moderata, è quella che preferisce una struttura centralizzata: dalla necessità di cambiare nome nasce la U.S.V.I. (Unione Società Veliche Italiane), che tornerà dopo qualche tempo a essere la Federazione Italiana Vela. Nel primo dopoguerra è la vela a svilupparsi più in fretta, soprattutto per ragioni economiche. Cambia il modo di andar per mare: Vela e Motore ospita i primi articoli di “consigli ai regatanti”, impensabili negli anni Trenta. È un segnale del fatto che non sono più i marinai a pagamento a correre le regate per il proprietario, ma è il proprietario stesso che guida la propria barca. Compaiono perfino i progetti delle prime regate “d’altura”, come la Rapallo - Isola d’Elba - Rapallo presentata all’inizio del 1947. Nel 1953 si disputa la prima regata della Giraglia. Per la crociera invece, già allora il problema è quello dei porti, soprattutto sulla Riviera di Ponente. Il confronto con la Costa Azzurra è già perdente: “ogni cittadina per piccola che sia è dotata del suo porto” scrive un articolo del 1952, dove la Liguria è descritta come la “cenerentola degli approdi”. Su questo problema Vela e Motore era in quegli anni troppo ottimista, dal momento che indicava come “svolta decisiva” per risolvere il problema dell’attracco in Liguria la nascita dei porticcioli di Alassio e di Varazze… Nel ’52 fa la sua apparizione la vetroresina, ma l'alto costo di costruzione rende ancora lontana la diffusione di barche a basso costo. Quasi contemporaneamente si fa invece strada un altro materiale, il compensato marino, che conquista i suoi spazi sia nella vela (col Vaurien, celeberrima deriva da iniziazione) sia nei motoscafi come i famosi Riva che più avanti saranno considerati tra le bandiere del “lusso”. Vela e Motore, nel 1961, al primo Salone Nautico di Milano lancia Sintesi, il progetto di una barca a vela da crociera economica. È la prima di una serie: negli anni successivi nascono il QR 5,20, il Vento del Sud, l’Eleonora e soprattutto l’ Alpa 7, l’equivalente della Cinquecento per il mondo della vela. Ma gli anni Sessanta sono gli anni dei motoscafi (non per niente al Salone di Milano del ’ 61 erano esposte solo due barche a vela!). Gradualmente il benessere economico che si sta diffondendo in Italia permette di comprare barche nuove, di dimensioni abbastanza contenute, con motori potenti. La diffusione di un nuovo protagonista, il gommone, avvicina ancora più italiani al mare.

Speranze e crisi

Alla fine degli anni Sessanta Vela e Motore, che nel frattempo è entrata far parte del gruppo editoriale Edisport, si adegua ai cambiamenti in corso effettuando un restyling la propria veste tipografica, più agile e moderna, ma anche i contenuti, con l’introduzione delle prove tecniche delle imbarcazioni (una delle sezioni più gradite al pubblico, che è continuata ininterrottamente fino ad ora) e con una serie di nuovi servizi sulle regate veliche e motonautiche. Gli anni Settanta sono gli anni della grande illusione, ovvero il momento in cui si spera nel decollo definitivo, grazie alla vetroresina, di una nautica matura diffusa presso il grande pubblico, capace di recuperare tutta la positività della tradizione italiana e le risorse del territorio ma anche di aprirsi alle novità della tecnologia che in quegli anni cominciano a imporsi. I Saloni nautici dei primissimi anni Settanta sembrano confermare queste speranze: in Italia vengono prodotte nel 1970 ben 34.000 imbarcazioni, che salgono a 46.000 nel ‘71, a 49.000 nel ‘72, a 53.000 nel ‘73… Sono anni di innovazioni e di sviluppo, sia tecnico che sportivo. Castoldi presenta il suo primo idrogetto al Salone di Genova del 1970. Lo stesso anno i crocieristi italiani possono finalmente contare sulla rete Vhf in mare. L’ elettronica irrompe sulla scena e impone una rivoluzione rapidissima, sia nella strumentazione sia nella progettazione degli scafi. Sempre nel 1970 poi viene introdotto il nuovo regolamento I.O.R. per i cabinati a vela, che costringe progettisti e cantieri a battere nuove strade: nascono barche storiche come il Guia di Falk o il Vilhuela di Carcano, mentre il Comet 910, l’Ecume de Mer, il Brigand 7,50, il Tequila, lo Sciacchetrà sono quelle che si impongono di più nelle classi minori. Si tenta anche la strada della costruzione in ferrocemento per le barche grandi (i primi esperimenti riusciti sono proprio del 1970) e dell’ABS per quelle piccole. Ma anche tra le derive ci sono novità che cambieranno per sempre il volto della vela: appare infatti il Laser, la barca più venduta nella storia, e il windsurf. Tra i motoscafi arrivano molte barche destinate a diventare dei classici e a restare nel tempo, come il 20 M di Baglietto, il 25 Sport Fisherman della Riva, l’X 44 della Italcraft, ma si impongono anche le pilotine, come la piccola Calafuria. Anche il settore dei gommoni conosce una crescita prorompente. La motonautica da corsa colleziona in questi anni strepitosi successi: nonostante che la vita del movimento sia travagliata da questioni tecniche e di gestione, i nostri piloti si impongono nelle classiche europee e nelle gare offshore, trovando solo gli americani a fermarli. Ma tutto questo non dura. Ben presto emergono i limiti strutturali dello sviluppo nautico nel nostro paese: il mercato si satura rapidamente, i cantieri in Italia, troppo numerosi, producono barche troppo simili tra loro. Gli italiani tendono, o meglio vogliono, ancora concepire la barca come un lusso e si avvicinano ad essa quasi sempre per caso, i posti barca sono drammaticamente pochi, i prezzi restano alti. Per la prima volta poi arrivano sul nostro mercato i motori giapponesi, a costi molto concorrenziali, e l’industria del settore entra in crisi. A tutto si aggiunge la crisi energetica mondiale seguita alla guerra arabo israeliana del 1972. Perciò a partire dal 1974 il mercato entra in rapida contrazione e solo nel corso di molti anni riesce gradualmente a riprendersi. Gli anni Ottanta non sono cattivi, c’è un secondo boom, una nuova voglia di barca quando si affacciano gli anni ottanta. Ma ancora una volta sono le scelte del Governo a imporre un pedaggio molto caro alle industrie. La nautica da diporto, da troppi anni vista come una delle manifestazioni del lusso diventa una bandiera di quei molti Robin Hood che vogliono togliere ai ricchi per dare ai poveri. La finanza inventa la parola “redditometro” ed è la fine, basta farsi prestare la barca per un giorno per finire “accertati” e capita anche agli istruttori delle più note scuole vela essere considerati nababbi ed evasori. I ricchi continuano ad andare in barca, gli altri devono smettere o letteralmente fuggire all’estero. Chi ha imposto le tasse sa benissimo di aver fatto un disastro e di non incassare nulla, ma si contenta della bella figura, si fa per dire, nei confronti dei ceti a cui ha chiesto sacrifici in busta paga. L’industria si ribella e si arriva a una quasi serrata al Salone di Genova. Sono anni tristi ed è storia recente, che molti dei lettori hanno vissuto sulla loro pelle. Adesso le cose vanno meglio, molto meglio, e andar per mare è tornata ad essere un’attività lecita. Vela e Motore era sempre lì, più che testimone un protagonista.
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