01 August 2017

Marocco, confine africano

Superate le Colonne d’ Ercole si apre un mondo ricco di incognite. Tangeri, un luogo dal grande passato che affascina il viaggiatore alla ricerca di luoghi ancora veri.
La maggior parte dei navigatori che veleggiano verso le soleggiate isole Canarie, una volta abbandonato lo Stretto di Gibilterra, punta verso il largo alla ricerca degli alisei portoghesi che soffiano verso sud. Incuranti, per motivi di tempo o perché “così fan tutti”, del fatto che la parte nord-occidentale dell’Africa, fin proprio davanti alle Canarie, è occupata dal Marocco. Ancorati nell’ampia baia di Gibilterra, ancora qualche giorno, avremmo nuovamente tuffato la prua nelle acque atlantiche color cobalto.

Eravamo a bordo, indaffarati con gli ultimi preparativi. Adagiata sul tavolo da carteggio c’era la grande carta dell’Ammiragliato Britannico raffigurante l’oceano Atlantico meridionale. Passavamo spesso davanti al carteggio e ogni volta l’occhio cadeva su quella carta gialla, azzurra e bianca. La rotta che avremmo dovuto seguire era tracciata a matita, e non potevamo fare a meno di osservarla a ogni occasione. Dopo le Colonne d’Ercole, avremmo fatto rotta verso sud ovest per circa settecento miglia, fino a raggiungere l’isola di Lanzarote. Inevitabilmente, però, non potevamo fare a meno di considerare che la costa marocchina seguiva parallela la nostra rotta.

Più di una volta avevamo carezzato l’idea di costeggiare il continente africano. Avevamo molto materiale a bordo perché nel nostro programma iniziale, fatto a casa a tavolino durante il freddo inverno, ci eravamo ripromessi di fare almeno un paio di tappe per “assaggiare” quel grande Paese. Poi, con il passare dei mesi, mentre navigavamo verso il mitico Stretto, non avevamo incontrato nessun navigatore che fosse passato per il Marocco atlantico. Decidemmo così di portarci vicini a Tangeri, la nostra prima tappa nord africana sul programma, e vedere di raccogliere maggiori informazioni di prima mano, altrimenti avremmo fatto la classica rotta sulle Canarie.

Sotto la Rocca di Gibilterra, speravamo di incontrare qualche navigatore avventuroso che fosse passato di lì. Invece niente, nessuna notizia da poter valutare. Ancora incerti sul da farsi, una sera, rompendo gli indugi, decidemmo di attraversare lo Stretto e fare tappa a Tangeri. Le condizioni meteo sarebbero state buone per i successivi tre giorni, così decidemmo di salpare verso Tangeri, la porta principale per entrare in Marocco.

La porta del Marocco

Di prima mattina eravamo pronti a salpare e lasciare a poppa l’Europa e Gibilterra con la sua rocca che finalmente era tutta visibile grazie all’aria secca che aveva dissipato le perenni nubi che nascondevano la vetta. Un vento gentile ci spinse verso sud e una volta doppiata punta Carnero dirigemmo la prua più verso ovest cercando di sfruttare al meglio la forte corrente in uscita.

Poco prima di Tarifa puntammo nuovamente verso sud e attraversammo il trafficato canale virtuale assegnato alla navigazione commerciale. Alcune navi mercantili dalle dimensioni ciclopiche modificarono la loro rotta di qualche grado consentendoci di continuare a veleggiare senza variare la nostra rotta. Altre, invece, fecero finta di non vederci e ci costrinsero a lavorare sulle vele per evitare possibili collisioni. La giornata era stupenda e la visibilità ottima. Il vento proveniente da nord est manteneva pulita l’aria e faceva viaggiare la barca con tutte e tre le vele spiegate. Dopo mezzogiorno la corrente cambiò e ci trovammo ad andare veloci sull’acqua, ma con due nodi in meno di velocità effettiva. Decidemmo quindi di portarci al più presto a ridosso della costa africana per sfuggire alla corrente che, avanzando contro il vento, alzava anche un’onda corta e ripida che a volte frangeva sul ponte bagnando il biondo teak.

A poche miglia di distanza da punta de Alcazar la corrente diminuì, mentre il vento, forse per effetto termico, aumentò considerevolmente costringendoci a rollare un po’ di fiocco e ammainare la mezzana che tendeva a farci orzare troppo. La velocità aumentò e Punta Malabata fu raggiunta in meno di un’ora. Una volta doppiata entrammo nell’ampia baia di Tangeri e improvvisamente ci sembrò di essere lontanissimi da casa e dall’Europa. Avevamo percorso appena 25 miglia, però era come se avessimo attraversato mezzo mondo, tanto ci sentivamo emozionati nell’essere così vicini a un continente nuovo per noi.

Verso Tangeri

Mancavano meno di cinque miglia alla méta quando iniziammo a vedere le acque del mare ricoperte di sacchetti e bottiglie di plastica e altra sporcizia galleggiante. In fondo alla grande baia, nascosta da una spessa nube color caffelatte, doveva esserci il porto di Tangeri con la grande città che lo abbracciava. Il vento nel frattempo era diminuito mentre l’onda era rimasta, così, quando iniziarono a sbattere le vele, accesi il motore e chiudemmo ordinatamente le vele.

A un paio di miglia dall’arrivo scorgemmo il grande frangiflutti di cemento che proteggeva le acque interne del porto. Un enorme catamarano che faceva la spola con Algeciras e Tarifa stava uscendo, indicandoci l’ingresso del porto. Appena passammo l’imboccatura, l’onda sparì e diminuendo i giri del motore, avanzammo lentamente. La massiccia diga era invasa da gente intenta a pescare con la lenza che al nostro passaggio si sbracciò per salutarci. Lasciammo il terminal dei traghetti sulla destra ed entrammo in un porto più piccolo e trafficato di barche di pescatori locali. Superammo un altro basso frangiflutti e proseguimmo adagio guardandoci intorno ansiosi di scorgere tra tutte quelle imbarcazioni, qualche barca da diporto.

Intanto l’andirivieni di piccoli pescherecci si era fatto più fitto e congestionato. Il motivo di quella concentrazione di barche da pesca era dato dalla presenza del porticciolo peschereccio proprio davanti ai due pontili galleggianti del locale Yacht Club. Affiancate ai pontili c’erano tre imbarcazioni a vela di una dozzina di metri di lunghezza battenti bandiera francese. Un addetto dello Yacht Club corse verso di noi appena ci vide e dopo averci salutato calorosamente, ci indicò di ormeggiare a fianco a una barca a vela affiancata al corto pontile. Di malavoglia seguii le indicazioni visto che non c’erano alternative, così accostammo a un Oceanis 44.

Una volta controllati i parabordi e spento il motore, ci guardammo intorno. A poppa avevamo chiuso la via a un altro piccolo veliero i cui occupanti ci salutarono con un largo sorriso. A prua il porticciolo peschereccio era occupato da ogni tipo di mezzo galleggiante pensabile. I colori dominanti delle barche erano il verde scuro e il blu, gli scafi erano costruiti prevalentemente di legno. La concentrazione di barche era tale che non serviva fossero fissate a terra, erano così strette tra loro da formare come una grande zattera. Sulla nostra destra, oltre il pontile galleggiante riservato agli yacht in transito, c’erano alcuni edifici in ristrutturazione. All’interno di uno di questi le autorità rilasciavano il visto d’ingresso e timbravano i passaporti. Con un cavo volante ci si poteva allacciare all’energia elettrica e per qualche ora al giorno si poteva utilizzare l’acqua dolce da una canna arrotolata sul pontile. Un odore acre di fumo proveniva dalla città e mentre il sole si nascondeva dietro la collina ad ovest. In quel momento il richiamo del Muezzin si diffuse nell’aria coprendo il brusio circostante.

In Africa

In mezza giornata di viaggio avevamo proprio cambiato pianeta e in quel momento diventammo consapevoli che il nostro viaggio che durava da mesi lungo le sponde europee, si era concluso a Gibilterra. Da Tangeri ne iniziava un altro. Differente e affascinante, ricco di incognite e per questo eccitante. Non avremmo incontrato marine con tutti i servizi, non avremmo utilizzato l’euro per pagare i conti. La vita sarebbe stata meno costosa, avremmo gustato nuovi sapori e odorato nuovi profumi. Eravamo in Africa.

Dopo aver trascorso alcuni piacevoli giorni a Tangeri salpammo per entrare definitivamente in oceano. La navigazione fino a Capo Spartel fu scomoda a causa del poco vento e dell’onda incrociata. Qualche miglio dopo il capo però l’onda oceanica lunga e regolare annullò il mare incrociato, e un vento di 15 nodi proveniente da nord ovest ci fece veleggiare verso Asilah.
Avvicinandoci alla piatta costa il mare assunse un colore verdastro e le onde divennero più ravvicinate e alte. Nulla di pericoloso con tempo buono, ma con forte vento e mare mosso, lo stretto ingresso di Asilah potrebbe divenire pericoloso a causa del basso fondale. Le grosse pietre che formano il frangiflutti divennero visibili poche miglia prima dell’ingresso, le basse costruzioni di colore chiaro avevano chiazzato l’orizzonte già prima. Entrammo tenendoci più vicini al frangiflutti alla nostra dritta dove il colore dell’acqua sembrava indicare acque più profonde. Entrammo, e una volta ottenuto il ridosso dalle onde calammo l’àncora in tre metri di fondo sabbioso. Il porticciolo era tranquillo e poco congestionato da scafi di pescatori. Alcune piccole barche erano attaccate a corpi morti in acque basse, la larga banchina di cemento era sgombra. Una postazione della Polizia locale si trovava lungo la banchina e un ragazzo in divisa ci fece cenno di raggiungerlo a terra.

Lunga sosta ad Asilah

Una volta a terra un gran numero di bimbi ci corse incontro urlandoci “hallo-hallo” e chiedendoci qualche spicciolo. Il corteo ci seguì per qualche tempo e poi si diradò lasciandoci liberi di camminare tra le strade polverose, talvolta abbellite da alberi.
La medina era tranquilla rispetto a quella di Tangeri, e le case più ordinate. Alcuni murales dai colori accesi ricoprivano le facciate. Mentre rientravamo notammo alcuni grossi pescherecci affiancarsi alla banchina. Passammo a fianco ai pescherecci e ossuti uomini dalla pelle scura scaricavano pesci di grandi dimensioni e tonni. Alcuni marinai da bordo ci salutarono sorridenti così approfittai per chiedere se potevano venderci un pesce. L’uomo al quale mi rivolsi si girò verso il capitano, il quale fece un cenno con il capo. Questi sparì nella stiva e risalì con un grosso dorado. Me lo porse stringendolo per la coda e lo afferrai. Pesava almeno cinque chili. Gli chiesi quanto volesse e disse in un italiano stentato “regalo”.

Dopo Asilah andammo a Mohammedia e poi a Casablanca. Fummo sempre ben accolti e il “pesce regalo” fu una costante. Conoscemmo persone gentili e giovani che cercavano di guadagnarsi da vivere facendo assistenza agli yacht di passaggio, come piccoli lavori di manutenzione o riparazioni. Allo Yacht Club di Casablanca un francese aveva il motore in panne. Non aveva pezzi di ricambio e non sarebbe stato facile farseli spedire. Un ragazzo robusto, contattato dal direttore dello Yacht Club, visionò il motore del francese e dopo pochi giorni lo fece ripartire con il motore in ordine. Aveva riparato alcuni pezzi che da noi si sarebbero gettati perché costa meno sostituirli che aggiustarli.

Durante la nostra permanenza ci accadde di osservare lavori eseguiti da artigiani dalle mani d’oro che riparavano oggetti ridotti in condizioni pietose. Abbiamo visto meccanici entrare in angusti vani motore di barche a vela e lavorare con disinvoltura in posizioni impossibili. Parlando con varie persone nei porti abbiamo avuto la sensazione delle grandi aspettative della gente riguardo allo sviluppo del turismo nautico lungo le loro coste. L’arrivo di barche straniere è visto come un’opportunità di lavoro e le imbarcazioni che giungono nei porti lungo la costa atlantica sono benvenute e le formalità burocratiche d’ingresso e d’uscita non sono più macchinose, ma semplici e veloci e costituiscono l’occasione per conoscere persone locali ed entrare in sintonia con il luogo.

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